Woman in Gold, la recensione

Tempo. Memoria. Famiglia. Olocausto.

La storia individuale, intima e personale, che si mescola alla Storia, impersonale, dolorosa e collettiva.

Vienna, ieri; l’Austria, oggi. E poi l’America, e le sue promesse di libertà e riscatto. La sottrazione illecita di opere d’arte, con risvolti che muovono tanto sul piano emotivo, quanto su quello politico – giudiziario. In definitiva, il senso dell’identità e la lotta per l’identità.

Questa, in estrema sintesi, una ricognizione il più possibile esaustiva della caterva di idee, buone intenzioni e nobili intenti disorganicamente e superficialmente gettati in pasto al pubblico nel nuovo e abbastanza deludente film di Simon Curtis, Woman in Gold.  

 Maria Altmann, californiana d’adozione ma viennese di nascita, lotta con tenacia per rientrare in possesso dei beni illecitamente sottratti alla sua famiglia (benestante, patrona delle arti ed ebrea) al tempo dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Fiore all’occhiello del patrimonio artistico degli Altmann, il celebre “Ritratto di Adele Bloch – Bauer”, la donna in oro del titolo, per l’appunto, a firma Gustav Klimt. Adele era la zia, amata e molto rimpianta, di Maria Altmann. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il governo austriaco, con disinvolto opportunismo, sceglie di non restituire il ritratto alla famiglia Altmann, lo espone alla Galleria del Belvedere di Vienna e ne fa un’icona della pittura nazionale, una sorta di Monna Lisa austriaca. Col supporto (interessato al principio ma via via sempre più sincero) di Randy Schoenberg, giovane avvocato e nipote del celebre compositore Arnold, sangue austriaco nelle vene, una sorta di espatriato di seconda generazione, Maria ingaggia un corpo a corpo giudiziario col governo austriaco per vedere restituito il maltolto, sanata una piaga dolorosissima e ricostruita, almeno sul piano dei sentimenti, l’unità di una famiglia dilaniata dalle persecuzioni antisemite.

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Maria è interpretata oggi dalla sempre splendida Helen Mirren, e ieri, dalla bravissima Tatiana Maslany; un Ryan Reynolds solido e convincente come poche altre volte nella parte di Randy Schoenberg.    

A fronte della buona alchimia fra i due protagonisti, il modello di riferimento è certamente Philomena di Stephen Frears dal quale Woman in Gold mutua con scarsa originalità le dinamiche fondamentali del rapporto Mirren – Reynolds; a dispetto del sentimento di una complicità che si costruisce nel corso del film con l’inevitabile dose di risate, lacrime, frizioni, incomprensioni e provvidenziali ricongiungimenti, l’impressione sostanziale è quella dell’occasione mancata.

Il film genera emozione per inerzia, nobilitato com’è da una vicenda umana e storica degna del massimo interesse. Fondamentalmente, la messa in scena di Curtis e la sceneggiatura di Alexi Kaye Campbell non riescono a dare vita e autentico colore ad una dialettica fra passato e presente, troppo rigida nella sua meccanica e semplicistica giustapposizione di differenti momenti della storia di Maria. Una Vienna d’altri tempi, fotografata con toni appena desaturati, imprigionata in una costruzione drammatica che ondeggia fra il melodramma e una rievocazione storica che sa di già visto, già sentito.

Bisogna tener presente che Maria Altmann porta su di sé il peso di due mondi, due civiltà, due culture, l’incastro imperfetto ma per questo ancor  più interessante di vite profondamente differenti che si snodano nel solco tracciato dalla grande storia del Novecento; ci sarebbero tutti i presupposti per un memorabile ritratto di donna, visto e considerato che, al di là del suo indiscutibile talento, che in questo film si riverbera tanto nella caratterizzazione quanto nel lavoro sulla lingua della protagonista (il consiglio, se possibile, è quello di gustare il film in lingua originale), la stessa Helen Mirren riecheggia, in un certo qual modo, il background del suo personaggio, vantando discendenze russe nella propria famiglia. Ma la sua Maria, viziata da un generale deficit di coraggio del team creativo in termini di impostazione generale del progetto, offre scampoli di umorismo, amarezza, rabbia, volontà di redenzione, espressi con la consueta maestria, ma senza particolare profondità.

Un montaggio che vive di scarti improvvisi, specialmente nella prima parte del film, tralascia di approfondire alcuni snodi fondamentali della trama, soprattutto per quel che riguarda la presentazione e la raffigurazione di certi personaggi secondari, sacrificati senza troppi complimenti sull’altare della velocità e concisione del racconto. Considerando che la durata di Woman in Gold è di circa 110 minuti, questo è un bel problema.

Troppe idee, troppo superficialmente esposte, un’eccessiva convenzionalità nella confezione dell’opera e malgrado tutto, a dispetto delle sue stesse debolezze, Woman in Gold trova la sua ragion d’essere, il suo calore e la sua vitalità, imperfetta ma non trascurabile, nel valore della storia raccontata, nell’interpretazione dei due protagonisti.

Una sufficienza striminzita, questo è tutto. Ma si poteva fare di più.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
  • Un buon affiatamento per la coppia Reynolds – Mirren.
  • Il percorso di scoperta di sé intrapreso dal personaggio interpretato da Ryan Reynolds è restituito dall’attore americano con partecipazione e sensibilità. Woman in Gold rappresenta l’intersezione fra i due versanti della carriera dello stesso Reynolds: il percorso autoriale (Atom Egoyan e Marjane Satrapi) e quello mainstream (Deadpool).
  • Helen Mirren
  • Ottima la scelta di Curtis di ridurre al minimo indispensabile le scene in tribunale. Maria combatte una battaglia che è prima di tutto intima ed emotiva, e soltanto poi giudiziaria. Poco spazio al tribunale riduce inoltre il rischio del “film nel film”.
  • Daniel Bruhl, ottimo inteprete, qui funge da metafora di un’Austria che tenta oggi di fare ammenda per gli errori di ieri. Interessante, ma il suo personaggio poteva essere più sviluppato.
  • Katie Holmes, moglie prima comprensiva, poi scettica, poi di nuovo comprensiva. Prevedibile, e anche in questo caso, si poteva sviluppare di più.

 

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