28 anni dopo, la recensione

28 anni fa, la leggerezza di un gruppo di animalisti inglesi ha portato a una pandemia del virus della rabbia. Le persone che venivano a contatto con i fluidi di soggetti infetti si trasformavano dopo pochi secondi in bestie furiose e violente. Nell’arco di 28 giorni, la Gran Bretagna è stata messa in quarantena, la popolazione decimata. 28 settimane dopo, l’esercito ha preso il controllo del Regno Unito, la situazione lentamente è iniziata a rientrare e i medici sembravano aver trovato il modo di contenere il virus. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto a causa di un portatore sano del virus e la storia è ricominciata daccapo, espandendosi anche fuori dall’Inghilterra.
In tutti questi anni, i governi hanno trovato il modo di combattere il virus, il mondo è tornato alla normalità. Ma non in Gran Bretagna. Lì la situazione è degenerata. L’isola più estesa d’Europa è rimasta isolata dal resto del mondo e la popolazione si è auto-esiliata in piccole comunità che cercano come possono di sopravvivere senza gli agi della modernità: tra caccia, pesca, agricoltura e costante controllo sugli infetti che vivono allo stato brado, nelle campagne, anch’essi raggruppati e comandati dagli Alpha, mostri evoluti, più intelligenti, forti e resistenti che garantiscono la continuità della specie mettendo incinte le donne.
In questo contesto, il piccolo Spike ha ormai compiuto 12 anni e suo padre Jamie vuole portarlo per la prima volta all’esterno, a caccia con lui, per istruirlo su come sopravvivere fuori dalla loro comunità. Ma Isla, sua madre, non è d’accordo e così padre e figlio si organizzano di nascosto. Spike però è preoccupato per sua madre, malata da diverse settimane di un male che nessuno nella comunità riesce a identificare. Per questo, il bambino è intenzionato a trovare il Dr. Kelson, un medico vero, che voci dicono sia nascosto da qualche parte lì fuori, in mezzo alle mandrie di infetti.
28 giorni dopo, nel 2002, aveva avuto la forza di dare nuova linfa vitale al sottogenere dell’horror dedicato a zombi e infetti. Danny Boyle (regia) e Alex Garland (sceneggiatura) non avevano realizzato nulla di realmente nuovo (Romero con La città verrà distrutta all’alba e Lenzi con Incubo sulla città contaminata si erano mossi in direzioni simili trent’anni prima), però avevano avuto la lucidità e l’intuizione di rielaborare quel concept in maniera personale e soprattutto intercettando lo spirito del tempo.
In men che non si dica, grazie anche alla contemporaneità con L’alba dei morti viventi di Zack Snyder, il filone zombi e infetti era stato rilanciato con grande successo.
Il bel film di Boyle, poi, ha avuto un altrettanto riuscito sequel, 28 settimane dopo, diretto nel 2007 da Juan Carlos Fresnadillo e si è parlato immediatamente di un terzo capitolo, che all’epoca avrebbe dovuto intitolarsi 28 mesi dopo. Ma la mancanza di “ispirazione” in Garland e Boyle (che doveva tornare alla regia) e la disputa sui diritti del franchise (divisi tra DNA Films e Fox Searchlight) han fatto gettare la spugna… almeno fino ad oggi!
Boyle è tornato a dirigere una sceneggiatura di Alex Garland, che ha finalmente trovato la chiave giusta per proseguire la storia, e 28 anni dopo arriva (dopo 23 anni) con un progetto esteso che prevede una trilogia, di cui il secondo capitolo è già stato girato per arrivare al cinema nel 2026.
Però, negli ultimi vent’anni, proprio come conseguenza al successo di 28 giorni dopo, di film su contagi e virus, estesi anche alla deriva zombi, ne sono stati prodotti davvero tanti, troppi… un’infinità! E il pericolo che 28 anni dopo apparisse come uno spin-off di The Walking Dead era davvero concreto.
Fortunatamente non è andata così perché non solo il ritorno di Danny Boyle dietro la macchina da presa del franchise è sinonimo di stile e grande personalità, come nel primo film, ma si va ad unire anche quel ritmo e quell’azione di cui erano colmi 28 settimane dopo. Ma possiamo aggiungere un terzo fattore che mancava ai precedenti due: quello emotivo.
28 anni dopo, infatti, ha una componente incredibilmente emotiva che ci racconta di sopravvivenza (estrema) e di affetti, affetti famigliari in particolare, che possono manifestarsi attraverso la nascita e la morte. Perché il grande fil rouge che unisce tutti i capitoli della saga è proprio il racconto della famiglia e di come i legami aiutino le persone in difficoltà ad andare avanti.
Nel primo film, Jim, Selene e Hanna sopravvivono alla comunità militare perché sono parte di una famiglia, anche se non biologica (ognuno di loro ha perso i propri cari durante l’avventura); nel secondo Tammy e Andy vivono perché si fanno forza come sorella e fratello, nonostante la perdita della mamma e il contagio del papà. In 28 anni dopo seguiamo la vicenda famigliare di Spike, interpretato dal bravissimo Alfie Williams, dalla perdita di fiducia verso il padre – Aaron Taylor-Johnson – all’amore per la madre malata, che ha il volto sofferente di Jodie Comer. Ma poi c’è anche l’incredibile evoluzione degli infetti, la loro personale versione dell’“affetto famigliare”, con il sorprendente ruolo di Alpha… che però preferiamo lasciarlo scoprire a voi.
Come dicevamo, se 28 mesi dopo non si è fatto è anche perché a Garland e Boyle mancava una motivazione per proseguire quella storia. Motivazione che è maturata nel tempo grazie ai reali fatti d’attualità. Perché nel frattempo la paura per una pandemia è diventata realtà e la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Europa nel 2020 con la Brexit, evento che ha influenzato tantissimo la vicenda di 28 anni dopo. Le comunità di individui sani hanno deciso di auto-isolarsi in tribù autonome in cui sono in vigore i vecchi valori di una volta. Come un vero e proprio ritorno al passato, ma non un passato idealizzato e nostalgico, piuttosto opprimente e senza reali sbocchi per il futuro, come intuisce il giovane Spike, qui simbolo di quella gioventù inglese che si è vista tarpare le ali dalle convinzioni e la necessità di una retromarcia da parte dei più anziani della comunità.
Il retrogusto genuinamente politico di 28 anni dopo, però, rimane sullo sfondo, una suggestione che contribuisce a dare spessore a un racconto che di base è il più classico coming-of-age, ovviamente in un contesto di sopravvivenza estrema.
Questo terzo capitolo è più violento e dark dei due precedenti, con momenti decisamente disturbanti mossi anche dalla rinnovata fascinazione che il cinema ha trovato per lo splatter. Inoltre, con il passare di tutto questo tempo, abbiamo anche una nuova panoramica sugli infetti, che si evolvono – come gli Alpha – o si adattano, come quelli obesi che strisciano nel fango e si nutrono di vermi. Nel complesso, gli infetti di 28 anni dopo hanno un aspetto selvaggio, quasi bestiale, sono sporchi e nudi, spesso magrissimi, e si muovono in mandrie che sono quasi dei clan ristretti. C’è, dunque, una ricerca di realismo nel racconto di questa nuova varietà di esseri umani, come se l’evoluzione avesse fatto un suo perverso corso prevedendo una nuova tipologia di creature, predatori da inserire in cima alla catena alimentare.
I mostri, si, ma 28 anni dopo è soprattutto un film di umanità, ponendosi su un piano diametralmente opposto a 28 giorni dopo, in cui assistevamo alla regressione della specie. Se, come abbiamo detto, perfino gli infetti cercano un equilibrio, un barlume di distorta umanità, gli umani ce la mettono davvero tutta per raggiungere la fine del tunnel. Di Spike e della sua determinazione nell’aiutare la mamma abbiamo accennato, ma poi c’è il Dr. Kelson di Ralph Fiennes, un personaggio intenso che si affida all’immensa bravura dell’attore. La presenza di Kelson in questa prima parte della trilogia è breve ma lascia il segno e quel blocco narrativo che lo vede protagonista è senza ombra di dubbio la parte più bella del film.
Così come accadeva nella realizzazione di 28 giorni dopo, anche in 28 anni dopo la tecnologia gioca un ruolo fondamentale. Quello del 2002 era uno dei primi film girati interamente con videocamere digitali e la qualità finale, diciamo, un po’ ne risentiva (soprattutto visto oggi) o almeno creava un effetto straniante. A distanza di tutto questo tempo, il digitale è diventato la regola ma Boyle fa di più, anche stavolta vuole sperimentare, e così gira il film con gli iPhone. L’effetto non è dissimile da quello di una ripresa con una videocamera professionale, ma qua e là le “sporcature” sono evidenti e volute, così da collegare idealmente i due film anche da una simile mano registica. E infatti Boyle torna a girare come se fosse alle prese con un videoclip, divertendosi con soluzioni estetiche e virtuosismi che fanno tanto panorama brit-punk anni ’90. E da quell’immaginario arriva evidentemente anche la chiusa di questo primo capitolo della nuova trilogia. Un epilogo grottesco, che giunge anche in maniera inaspettata, e che non mancherà di far storcere il naso a qualcuno per lo stacco netto con il linguaggio precedente del film.
A conti fatti, 28 anni dopo è una scommessa vinta perché è un film intelligente, sentito e fatto con criterio di causa. Sa prendere il meglio dai due film che l’hanno preceduto e aggiunge un contesto e un’emotività inediti che sanno caricarlo di un gran valore.
L’appuntamento è al cinema dal 18 giugno.
Roberto Giacomelli
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