Adolescence: tetralogia di un dramma familiare

Questo 13 marzo Stephen Graham e Jack Thorne hanno terrorizzato e frantumato i nostri poveri cuori con i quattro episodi della mini-serie Netflix Adolescence, destinata a diventare un termine di paragone di tutti i futuri prodotti sulla generazione Alpha. La serie, infatti, ha la stessa qualità di molti lungometraggi e i suoi quattro, strazianti, piani sequenza da un’ora, sono destinati a fare scuola.

In quella che sembra una mattina come tante, le forze dell’ordine irrompono nella casa della famiglia Miller e arrestano il tredicenne Jamie Miller (Owen Cooper) con l’accusa di omicidio. Il padre, Eddie Miller (Stephen Graham), assolutamente incredulo, accompagna il figlio alla centrale di polizia, convintissimo che ci sia stato un errore, sino a che la polizia non gli mostra il video incriminante: Jamie ha ucciso a coltellate una propria compagna di scuola. Con questa tragica presa d’atto si conclude il primo episodio e inizia il calvario della famiglia Miller.

La narrazione della vicenda procede con una struttura polifonica e circolare: nel secondo episodio si seguono le indagini dell’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters) mentre nel terzo si entra nella testa del “mostro”; solo nel quarto ritroviamo la famiglia Miller, che cerca di ricostruirsi una quotidianità tra rimpianti e sensi di colpa.

Nonostante il titolo “ingannevole”, Adolescence ha un taglio molto più crudo e drammatico rispetto ad altre serie pregevoli quali Tredici e Euphoria che trattano il disagio adolescenziale; addirittura, il terzo episodio arriva ad avere delle atmosfere e degli effetti nello spettatore molti simili a Il Silenzio degli innocenti.

Lo stile documentaristico del regista Philip Barantini sterilizza gli ambienti, le scenografie e tutti gli elementi comprimari, per mettere al centro delle riprese i tre involontari protagonisti: Eddie, l’ispettore e Jamie. Il tema preponderante della storia è quello della mascolinità tossica e ognuno di questi personaggi ne rappresenta inconsapevolmente un aspetto: l’Eddie del commovente Stephen Graham è il tipico pater familias rude ma amorevole, che davanti al pericolo sembra voler difendere il figlio contro il mondo intero, ma al tempo stesso lo ha inconsapevolmente caricato di frustrazione con le tipiche aspettative di genere; il detective Bascombe invece è un personaggio genuino un po’ vecchio stampo, di certo mosso da sentimenti nobili verso le vittime di ingiustizia ma incapace di stare al passo coi tempi e, soprattutto, di chiedere aiuto, anche solo al proprio figlio.

Ma giungiamo al dunque, il personaggio di Jamie; come ogni figura scritta meravigliosamente, il villain di questa inquietante storia è complesso: inconsapevole, ingannato, arrabbiato e spaventato.

Nell’indimenticabile terzo episodio, ricco di pathos e citazioni, attraverso un interrogatorio escono fuori tutti i demoni dell’aguzzino, i quali sono frutto di una sottocultura tossica, quella degli Incel, che sguazza nella misoginia e nell’autocommiserazione. Col suo volto angelico Jamie spiega alla dottoressa Ariston (Erin Doherty), la spirale di emozioni che lo ha portato a commettere un simile delitto e poi a considerarsi innocente. Durante il serrato dibattito tra i due, il ragazzo grida in faccia alla psicologa l’oppressione dell’uomo medio, ingigantita dall’instabilità della giovinezza, che non tollera gli standard di una società sempre più performativa e che crede di vedere nelle donne il proprio nemico.

Owen Cooper è uno di quei portenti di cui si sentirà parlare in seguito, anche solo per gli incubi che ha causato a milioni di genitori sparsi per il globo. Questa figura dell’inetto/innocente che diventa carnefice non è di certo nuova al cinema di genere, e come nella migliore tradizione, lo spettatore si chiede chi sia colui che ha nutrito il mostro, la famiglia o la società che ha normalizzato certi comportamenti.

Un altro grande merito della serie è quello di non minimizzare gli atteggiamenti scorretti della stessa vittima e di analizzare schiettamente tutte le dinamiche sociali che possono celarsi dietro a un tale delitto. La sceneggiatura tuttavia non rinuncia alla figura archetipica della donna salvifica, qua presente nelle controparti femminili (Manda e Lisa Miller, la psicologa) che affiancano gli sventurati protagonisti e cercano di guidarli verso la consapevolezza.

Adolescence è dunque una serie conturbante – come lo furono Baby Reindeer e Dahmer– che utilizza una serie di cliché narrativi presi da diversi generi cinematografici per creare nello spettatore una spirale di emozioni negative (tristezza, brivido e rabbia) difficile da tenere a bada. Un prodotto del genere potrebbe ispirare l’ideazione di una serie antologica in cui le varie problematiche sociali legate agli adolescenti vengono scandagliate e dignitosamente contestualizzate – senza finti allarmismi acchiappa-binge-watching – ma per adesso il pubblico sente solo la necessità di un episodio bonus in cui Jamie prende consapevolezza delle proprie azioni.

Ilaria Condemi de Felice

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