Appartamento 7A, la recensione del prequel di Rosemary’s Baby
È molto interessante, nonché un indicatore sociale rilevante, constatare come nel 2024 il tema della maternità sia centrale nell’industria del cinema horror mainstream. Storie di madri protettrici della propria prole o genitrici terribili e assassine sono parte dello stesso DNA della narrativa e della cinematografia dell’orrore, ma quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi è un particolare mutamento di focus sulla maternità che ci racconta, in primis, l’importanza della scelta di essere madre. Ed è per questo che l’argomento si è spostato celermente sul tema dell’interruzione di gravidanza e della difficoltà che oggigiorno ancora vive nel riconoscere alle donne questo diritto.
Come spesso accade, quindi, il cinema horror è lungimirante nel leggere le paure e le difficoltà sociali in chiave fantastica, portando il tema dell’aborto al centro di storie che ne traggono forza e si fanno specchio della società. E non è di certo casuale se, queste storie, incociano il tema sociale con la religione, mettendo in evidenza quell’impasse paradossale che porta alla negazione del progresso intellettivo e scientifico. Due di questi film – Omen: L’origine del presagio e Immaculate – La prescelta – trovano il loro contesto proprio nell’ambiente ecclesiastico, il terzo dribbla sagacemente suore, preti e conventi pur non rinunciando alla subdola influenza della religione: vi parliamo di Appartamento 7A.
Ma cos’è Appartamento 7A?
Nel (mai davvero) lontano 1968, Roman Polanski lasciava alla Storia del Cinema uno dei suoi film più belli e importanti, nonché uno dei maggiori capisaldi del filone satanico/demoniaco, Rosemary’s Baby. Tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin, Rosemary’s Baby ci raccontava la traumatica gestazione di una giovane donna che, dopo essersi trasferita con il marito in un lugubre appartamento di Manhattan e aver conosciuto gli invadenti anziani vicini di casa, rimane incinta nientemeno che dell’Anticristo. Il successo del film (perfino un meritatissimo Oscar a Ruth Gordon per il ruolo di Minnie Castevet) portò, nel 1976 a un sequel televisivo dal tronfio titolo Guardate cosa è successo al figlio di Rosemary (Look What’s Happened to Rosemary’s Baby, in originale) e a un remake sottoforma di miniserie nel 2014 per la regia di Agnieszka Holland. Ma sappiamo che dal 2008, quando la Platinum Dunes ne ha acquistato i diritti, era in programma anche un remake cinematografico che poi è naufragato fino al 2021, quando è entrato in produzione Apartment 7A, prequel di Rosemary’s Baby.
Il film inizia nel 1965, quando la ballerina in ascesa Terry Gionoffrio si infortuna durante uno spettacolo compromettendo seriamente il suo futuro nella danza. Rifiutata ai provini per uno spettacolo di Broadway perché ormai identificata come “quella che è caduta”, Terry tenta di approcciarsi direttamente con il produttore dello spettacolo, Alan Marchand, e per questo lo segue nella palazzina dove abita, ma un malore le fa perdere i sensi e si risveglia nel letto di Minnie e Roman Castevet, due anziani gentili che l’hanno soccorsa. I Castevet offrono a Terry l’opportunità di occupare gratuitamente un secondo appartamento di loro proprietà all’interno dell’edificio e la ragazza accetta, inoltre riesce ad avere un fruttuoso appuntamento con Marchand e le condizioni del suo piede migliorano improvvisamente. Tutto sembra andare per il meglio, ma nei corridoi di quella palazzina aleggia un’aria misteriosa, i Castevet risultano fin troppo invadenti e Terry ha allucinazioni da incubo sempre più frequenti, finché scopre di essere rimasta incinta…
Finito di girare nel 2022, con sessioni di re-shooting l’anno successivo, Appartamento 7A porta la firma della talentuosa Natalie Erika James, anche co-sceneggiatrice insieme a Christian White (da un precedente script di Skylar James), che nel 2020 aveva diretto il notevolissimo horror psicologico Relic. Ma fino a qualche mese fa, l’identià di prequel di Rosemary’s Baby era stata tenuta nascosta dalla produzione di Appartamento 7A fino all’annuncio che il film sarebbe stato destinato in esclusiva a Paramount+. E la natura un po’ televisiva, in effetti, si nota sia per il ritmo compassato sia per un utilizzo quasi totale di interni, con pochissime sequenze in esterni palesemente ricostruiti in studio. Però, nonostante la chiara modestia produttiva dell’operazione, Natalie Erika James riesce a portare a casa egregiamente il suo compito soprattutto grazie a un tono generale che sa richiamare le atmosfere del capolavoro di Polanski senza “copiarlo”.
Innanzitutto, va dato atto alla bravissima Julia Garner (che rivedremo a breve in Wolf Man) di aver dato vita a un’ottima protagonista, ben costruita grazie alle sue ossessioni e alla determinazione, ma anche incredibilmente vulnerabile, una fragilità che giustifica il crescendo mirato a condurre il personaggio verso il destino già noto. Terry è una ragazza che cerca di costruire il suo successo con le proprie forze, tra sudore e fatica, non facendosi spaventare neanche da quello che è a tutte le evidenze un problema che le ha segnato la carriera nella danza, ovvero il grave infortunio al piede. Per di più, l’ostacolo sembra insormontabile anche per l’ambiente maschilista che la circonda, in cui un provino diventa motivo di gratuito sadismo e feroce umiliazione. A questo va aggiunto il problema pratico di gestire una gravidanza, ulteriore ostacolo alla sua carriera, e la difficoltà di abortire in una società come quella occidentale del 1965. Così, come accadeva nel bellissimo La scelta di Anne, Terry deve ricorrere all’illegalità, con tutto il dolore e l’incertezza che comporta, a cui – nel nostro caso – si aggiunge lo status soprannaturale della gravidanza.
La regista e sceneggiatrice sa quindi toccare le corde giuste per condurre l’iter drammatico di questa donna, schiava di una società repressiva, cattolica e fallocentrica, ma non dimentica che sta innanzitutto facendo un film horror e condisce la storia di allucinazioni spaventose, demoni glitterati e incubi. Ma un ruolo fondamentale lo gioca anche la location, i corridoi bui, gli appartamenti freddi, i passaggi segreti e i sotterranei del Bramford Building, ricostruito sul modello del complesso Dakota di Manhattan che compariva in Rosemary’s Baby. Anche se, a tal riguardo, si ha la sensazione che si potesse fare qualcosa in più per rendere l’edificio ancora più spettrale e presente nella discesa nell’incubo della protagonista, limitato invece dai pochi ambienti inquadrati nel film.
Rendendo la danza un elemento importante nella vita di Terry, lo spettatore non potrà che pensare a Suspiria per il legame che anche qui c’è con l’occulto, ma in una sequenza in particolare ci renderemo conto che Natalie Erika James deve aver apprezzato la versione di Luca Guadagnino per come viene “citato” uno dei momenti più dolorosi e disturbanti del film del 2018. Ed è sempre legata alla danza la sequenza più bella di tutto il film, che sulle note di Be My Baby delle Ronettes trova una chiusura ad effetto sicuro prima che parta il tema caratteristico di Krzysztof Komeda.
Quel che invece lascia un po’ con l’amaro in bocca è la completa mancanza di coraggio nella delineazione della storia che sta alla base di Appartamento 7A. Se Omen – L’origine del presagio era riuscito abilmente a evitare l’effetto déjà-vu in confronto al capostipite, questo prequel non fa altro che ripercorrere con una certa pigrizia la trama di Rosemary’s Baby con la sola variante della danza. È tutto molto prevedibile, dunque, al di là delle sorti già note date dalla conoscenza dell’altro film, al punto tale che Appartamento 7A non aggiunge realmente nulla al canone, apparendo solo un piacevole ritorno a quelle atmosfere.
Nel cast, oltre alla già citata Julia Garner, abbiamo una notevolissima interpretazione di Dianne Wiest nel ruolo di Minnie Castevets che fu di Ruth Gordon e un adatto Kevin McNally in quello di suo marito Roman, prima interpretato da Sidney Blackmer.
Non privo di un’eleganza formale generale e di alcune interessanti letture sociologiche sulla contemporaneità, Appartamento 7A si presenta come un’operazione un po’ fine a se stessa che fatica a ritagliarsi una sua funzione narrativa pregnante. Però gli interpreti fanno la differenza e la regista conferma di avere talento.
Roberto Giacomelli
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