Babygirl: Nicole Kidman e il BDSM fedifrago. La recensione da Venezia81

Romy (Nicole Kidman) è una donna di successo, amministratrice delegata in una grossa azienda di spedizioni pioniera dell’automazione dei processi. Ha famiglia perfetta, marito perfetto (Antonio Banderas), figlie bionde brave belle e arcobaleno, ha riempito tutte le caselle punteggio possibili della vita. Tranne una, a quanto pare: è insoddisfatta sessualmente. Colmerà questo vuoto iniziando una relazione adultera con un giovane, assertivo stagista (Harris Dickinson), in grado di appagare le fantasie di sottomissione della donna.

Sembra una trama abbastanza trita e ritrita e in realtà… è così. In genere, il patto narrativo implica che una trama banale sia il presupposto per qualche forma di ribaltamento, e per tutto il corso del film ci si aspetta l’arrivo di qualcosa che scombini questo plot già stravisto – e stravisto non solo nello storytelling, ma persino nella vita reale.

Quantomeno, visto che il ruolo della donna nella società e le dinamiche psicologiche BDMS sono un soggetto “caldo” (e non solo nel senso ovvio) negli ultimi anni, ci si attendeva un tentativo di arricchire il discorso, di portare sul tavolo una riflessione intelligente sul grande interrogativo se il sadomasochismo psicologico sia per la donna una delle tante opzioni aperte dalla rivoluzione sessuale o al contrario, come credono alcune femministe radicali, una finta emancipazione che cela una manifestazione patriarcale interiorizzata. Argomento che, per altro, viene svogliatamente proprio espresso dal film verso la fine nella maniera più didascalica possibile. Invece quel che posso dirvi è che Babygirl di Halina Reijn avrebbe potuto essere girato vent’anni fa e non sarebbe cambiato nulla, sul piano degli stereotipi. Anzi, vent’anni fa uscivano film che erano ben più audaci e avanti nel trattare di adulterio, come Closer di Mike Nichols.

Una persona tradisce il partner perché qualcun altro all’infuori del ménage di coppia offre qualcosa che manca, questo lo sappiamo già più o meno da quando gli autori greci e latini narravano le scappatelle di Venere con Marte. Questo qualcosa può essere la maggiore giovinezza, la maggiore avvenenza, un genere diverso, l’assenza di responsabilità, il far sentire bene, la semplice rottura della routine o, come in questo caso, il soddisfacimento di fantasie mortificate all’interno della relazione monogama. Il problema è che ciò dovrebbe essere il presupposto di un plot cinematografico che si sviluppi poi oltre, mentre Babygirl per tutto il tempo inizia e finisce lì e lo fa pure male, incoccando tutti gli stereotipi possibili. Persino nel tirare in ballo blandissime pratiche BDSM (acronimo di bondage, dominazione/disciplina, sadismo e masochismo) la nota che arriva è pudica e stonata e fa apparire 50 sfumature di grigio un capolavoro, al confronto. Almeno in quel caso vi era un trattare il tema in modo trash e da discount, mentre qui si riesce nella non facile impresa di rendere l’argomento poco interessante.

Forse perché qui le fantasie BDSM vengono pure proposte con un valore sottilmente “giustificatorio”, si insiste molto sull’idea soprattutto che lei trovi nella loro concretizzazione qualcosa che non ha nel matrimonio. In questo particolare caso finisce però per suonare un po’ come quando, a generi invertiti, un uomo va con l’amante o a prostitute portando come scusa che “con la propria compagna certe cose non si fanno”. Lo dico perché, e sarà molto del senso di ridicolo involontario che il pubblico percepisce vedendo il film, l’ostacolo della protagonista è altrettanto completamente auto-inflitto: il marito di lei non viene presentato come un padre padrone retrogrado e puritano, ma fin da subito come un uomo intelligente, sensibile, empatico, che non le dà certe cose a letto per il semplice fatto che lei in tanti anni non le ha mai chieste. Foss’anche che i loro gusti fossero stati diversi, a letto, Romy non pare aver fatto nemmeno mai un timido tentativo di verbalizzare quello che per lei è evidentemente un disagio, su cui dunque varrebbe almeno la pena di provare a confrontarsi con il partner.

È il film, piuttosto, ad avere un approccio retrogrado e puritano all’argomento, spostando sulla dimensione del prettamente femminile/femminista un argomento che in realtà prescinderebbe comunque dal genere: l’attrazione verso il rapporto di sottomissione da parte di individui che, nella loro vita lavorativa, ricoprono ruoli di potere e controllo e che provano eccitazione all’idea di delegarli a qualcuno, invece, in camera da letto. Anche in quel caso, il tema potrebbe pure vagamente esserci ma resta a un primo stadio, non viene espresso ulteriormente. Alla fine, questo prodotto è l’equivalente cinematografico di una bistecca servita cruda, senza sale, senza condimento, senza contorno. Il tema c’è, è presente, ma non è stato fatto altro per articolarlo in una qualunque direzione che lo renda appagante per noi.

Certo che se ci si sofferma a pensare che la Kidman, in quanto a film sul rimosso sessuale, abbia in curriculum Eyes Wide Shut di Kubrick, non aiuta lo spleen dello spettatore. Il ruolo di Banderas, poi, avrebbe potuto ricoprirlo anche un passante transitato sul set per caso e non sarebbe cambiato assolutamente nulla: sprecatissimo, ridicolizzato persino da un momento risolutivo che vorrebbe anche essere tragicomico e invece intristisce e basta. Più o meno tutti i personaggi, comunque, hanno una caratterizzazione riassumibile in mezza riga di foglio Word.

L’unica pubblica utilità di una recensione può essere, in questo caso, il preavvertire il pubblico: non aspettatevi la svolta nella trama che proietti il percorso già noto di questo tipo di storie verso strade poco battute. Non arriverà.

Francesca Bulian

PRO CONTRO
  • Non ci sono pro.
  • È una fiera di stereotipi sull’adulterio coniugale.
  • Interpretazioni imbarazzanti e attori sprecati.
  • Il BDSM è trattato in maniera poco accurata, con una spolverata di puritanesimo.
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Valutazione: 3.0/10 (su un totale di 1 voto)
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