Bad Boys: Ride or Die, la recensione

Quattro anni fa avevamo assistito al ritorno un po’ nostalgico di un brand del cinema action che non era riuscito a esprimersi al pieno, parliamo di Bad Boys, buddy-cop movie che aveva trovato in Michael Bay l’autore ideale ma che si era fermato (prematuramente?) al secondo capitolo. Bad Boys For Life, però, aveva perso il costoso zio Bay e guadagnato due giovani talentuosi registi belgi di origini marocchine, Adil El Arbi e Bilall Fallah, che venivano dalla tv e dai video musicali pronti a portare il loro stile ipercinetico nel franchise di Jerry Bruckheimer. Visto il successo di Bad Boys For Life, il duo di poliziotti interpretati da Will Smith e Martin Lawrence è tornato però per un quarto film, Bad Boys: Ride or Die, che vanta ancora una volta la regia di Adil e Bilall per un’avventura molto movimentata ma narrativamente poco fantasiosa.
Il defunto Capitano Howard viene accusato in via postuma di aver condotto degli affari con un cartello di droga e per questo la polizia di Miami, con la squadra di Howard in prima linea, si trova al centro di un’inchiesta per corruzione interna. I detective Mike Lowrey e Marcus Burnett sono sicuri che qualcuno stia cercando di coprire i propri affari illeciti infangando il nome di Howard e il loro buon intuito viene ripagato con una trappola: i due vengono, così, incastrati e si trovano a fuggire con i colleghi alle calcagna. Nel tentativo di scagionarsi, i due porteranno avanti autonomamente e fuori dalla legge la loro indagine.
Quella di Bad Boys: Ride or Die è un po’ la tappa obbligata che si trovano a percorrere gran parte delle avventure seriali di matrice poliziesca: ovvero lo sbirro protagonista incastrato per crimini non commessi e pronto a dimostrare la propria innocenza smascherando il vero colpevole. Davvero non contiamo le volte che questo plot è stato toccato da saghe cinematografiche e come turning point di longeve serie tv. Non potevano, quindi, esimersi i cari Lowrey e Burnett, solo che questo espediente “salva-saghe”, che – diciamocelo chiaramente – è un po’ il fondo di quel barile vuoto di fantasia e lungimiranza, arriva un po’ presto all’interno delle storie dei Bad Boys, a maggior ragione se pensiamo che il precedente capitolo fungeva anche da reboot per una nuova generazione di spettatori.
Proprio guardando all’ipotetico “giovane” pubblico, anche Bad Boys: Ride or Die non è concentrato solo su Lowrey e Burnett ma continua a portare avanti quell’idea di squadra ampliata che stavolta pone come elemento di spicco Armando Aretas, il figlio “cattivo” di Mike, interpretato da Jacob Scipio, che qui passa nella squadra dei buoni. E in questo concetto di famiglia (non solo biologica) allargata troviamo una strategia che ricorda molto da vicino quella attuata dalla saga di Fast & Furious a cui è evidente che quella di Bad Boys vuole rifarsi, anche per una certa esagerazione nella messa in scena delle sequenze d’azione e per i battibecchi “comici” tra i protagonisti che ricordano sempre più quelli tra i personaggi di Ludacris e Tyrese Gibson nella suddetta saga su Toretto & co.
Per quanto riguarda l’azione, esattamente come accadeva in Bad Boys For Life – e forse anche di più – c’è un’attenzione e una complessità nelle coreografie che ci dice ancora una volta quanto sia un grande momento per il cinema action quello che stiamo vivendo. In questo caso, però, molto del merito della riuscita va ai due registi che con il loro stile videoclipparo riescono davvero a stupire con evoluzioni di macchina impossibili e tante invenzioni che dicono molto del loro gusto e le loro influenze. La sparatoria nel night club con Marcus al centro della scena, oppure la sequenza all’interno del parco acquatico abbandonato con soggettiva a staffetta in stile First Person Shooter, sono momenti che riempiono lo sguardo e divertono di gusto lo spettatore.
Di contro, Bad Boys: Ride or Die ha un prepotente ritorno all’ironia becera. Si, lo so che Martin Lawrence che fa gradasso è una caratteristica scolpita nel DNA della saga, ma il ridimensionamento di quella “caciara” nel terzo film aveva fatto sperare in un ritrovato barlume di pseudo serietà. Invece, in questo quarto film, il personaggio interpretato di Martin Lawrence è un po’ più centrale e questo porta con sé anche un’abbondanza di momenti ironici con l’attore, che alla lunga (e per gusto puramente personale) diventano insopportabili. Infatti, se in Bad Boys For Life la storia si concentrava molto sul passato di Mike Lowrey, in Bad Boys: Ride or Die c’è una back story che riguarda Marcus Burnett: il personaggio, infatti, a inizio film viene colto da un attacco cardiaco e – mentre è in coma – ha una visione che gli fa intendere di essere invulnerabile. Su questa cosa si tornerà spesso e darà modo a Marcus di gigioneggiare sulla sua presunta invincibilità. Ahinoi.
La presenza di Armando, il figlio di Mike, in una situazione di complicità con il padre, darà ovviamente modo di approfondirlo e, di conseguenza, consentirà al personaggio di Will Smith di confrontarsi con la paternità, elemento sicuramente interessante per portare Lowrey a uno step successivo in confronto allo status di dongiovanni con il quale lo abbiamo sempre conosciuto.
In un cammeo torna Michael Bay, proprio come accaduto nel terzo film, ma nella stessa scena c’è a sorpresa anche un cammeo del nostro influencer Khaby Lame in uno degli sketch che lo hanno reso famoso.
Una storia già vista molte volte, prevedibile in ogni suo risvolto, penalizza Bad Boys: Ride or Die, che potremmo definire un capitolo “pigro” del franchise; tuttavia, il talento di Adil El Arbi e Bilall Fallah conferisce al film un gran ritmo e un’inventiva continua nella regia rendendolo divertente e visivamente molto accattivante. Nell’aria c’è già un Bad Boys 5…
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento