Captain America: Brave New World, la recensione

Giunti al 35° lungometraggio, il Marvel Cinematic Universe ha bisogno di uno scossone, soprattutto dopo aver dormito sugli allori per troppi anni con una drastica (e fisiologica) perdita di interesse e affetto da parte di molti spettatori. Già Deadpool & Wolverine nell’estate 2024 ha provveduto a far risalire l’appeal di quel pubblico che ha premiato per quasi due decenni i prodotti a marchio Marvel espandendo il concetto di multiverso in una direzione metacinematografica inedita; ora con l’uscita di Captain America: Brave New World c’è bisogno di fare un ulteriore passo avanti, di fare sul serio e riprendere le redini narrative di un discorso che si era andato a sfilacciare dopo quell’ideale conclusione che rispondeva al titolo di Avengers: Endgame.
Sam Wilson, il Captain America in carica, si trova in Messico per recuperare un carico misterioso sottratto al governo giapponese da un gruppo di mercenari, noti come Serpent Society, e che un misterioso compratore dovrebbe ritirare. La missione di Sam, aiutato dal nuovo Falcon Joaquin Torres, va per il meglio ma del compratore non c’è traccia e Sidewinder, leader della Serpent Society, riesce a scappare.
Sam viene allora convocato alla Casa Bianca dal nuovo Presidente Thaddeus Ross che gli chiede di rimettere in piedi gli Avengers ma, quella sera stessa, il Presidente Ross è vittima di un attentato dal quale scampa miracolosamente.
Qualcuno sta complottando alle spalle del neoeletto Presidente cercando di far scoppiare un incidente diplomatico che può compromettere l’equilibrio mondiale. Solo Sam, coinvolto in maniera personale nella questione, può risolvere la situazione.
Sappiamo tutti che Sam Wilson, a cui da volto Anthony Mackie, non riscuote la stessa popolarità tra i fan che riscuoteva lo Steve Rogers di Chris Evans: basta fare un giro veloce tra i commenti su una qualsiasi discussione a tema sui social. C’è un razzismo latente? Probabile. C’è molta ignoranza data dalla non conoscenza del materiale fumettistico? Sicuramente. Ma in questa sede non vogliamo entrare nel merito della questione. Fatto sta che questa ostilità di certo pubblico è ben nota ai dirigenti dei Marvel Studios e per questo motivo in Captain America: Brave New World Sam si trova a interrogarsi in più occasioni sulla scelta di Steve di passargli lo scudo e della sua di accettare questo gravoso compito.
Sembra quasi che Sam stia vivendo male il titolo di nuovo Cap, come se fosse affetto da una piccola forma di depressione, data anche dal fatto che lui – a differenza di Steve e di gran parte degli eroi e villain che lo circondano – non ha alcun super potere ed è costantemente sottoposto a costole incrinate, ossa rotte, ferite da taglio e colpi di proiettile. Lui è allenato e recupera in fretta, ma dopo ogni missione è realisticamente costretto a far visita a un ospedale.
Questo problema torna più volte in Captain America: Brave New World e c’è un momento molto toccante in cui Sam, confrontandosi con una persona a lui molto cara (non possiamo dirvi chi, è una sorpresa!) capisce che Steve era qualcuno in cui la gente aveva bisogno di credere, mentre lui è qualcuno a cui la gente può aspirare. Perché lui è esattamente come la gente, tutto quello che fa è umano e non ha nessun siero del super-soldato a giustificarne i successi.
Se la crisi interiore a Sam Wilson è senza dubbio un tema importante in questo quarto film dedicato a Captain America, quel che appare però più evidente è la volontà del team di produzione di tornare a quel tipo di film Marvel che si facevano fino a qualche anno fa. Più serio, più ricco, più narrativamente strutturato.
I collegamenti fondamentali, direi propedeutici, alle opere del passato sono con The Incredible Hulk, la mini-serie The Falcon and the Winter Soldier ed Eternals, ma l’atmosfera che si respira in Captain America: Brave New World è quella della spy-story d’azione, di film come Captain America: The Winter Soldier, Civil War e Black Widow. C’è un clima da Guerra Fredda costante che porta la storia in territori da thriller politico, ma l’obiettivo primario sembra proprio quello di (ri)portare l’MCU in una direzione specifica utile a far avanzare la storia con eventi che influenzeranno il futuro e il più delle volte questo accade riprendendo accadimenti del passato che erano stati messi da parte. Perché l’MCU non dimentica mai e perfino personaggi introdotti nel 2008 e mai più visti da allora possono tornare, così come quell’elefante nella stanza che era il Celestiale inabissato nell’Oceano Indiano che qui non solo viene ripreso, ma è al centro di una scoperta importantissima per il futuro della saga.
Julius Onah, che abbiamo conosciuto come regista di The Cloverfield Paradox, svolge il compito affidatogli con rigore e una buona padronanza delle scene d’azione, spettacolari e perfettamente coreografate, ma quel che colpisce maggiormente in questo film è il lavoro di scrittura sui personaggi. Di Sam Wilson abbiamo già detto, ma a rubare costantemente la scena a tutti è il Thaddeus “Thunderbolt” Ross di Harrison Ford, che qui sostituisce lo scomparso William Hurt dando un maggior vigore al personaggio.
Ross ha numerosi scheletri nell’armadio e tanti rimpianti, a cominciare dai rapporti interrotti con la sua unica figlia Betty (Liv Tyler, che qui torna per un cammeo), ma una buona campagna elettorale gli ha consentito di diventare Presidente. Il suo personaggio è emblematico e sfaccettato, costantemente in bilico tra il villain e una redenzione positiva; Ross sembra perseguire una volontà di cambiamento in confronto a quando firmò gli Accordi di Sokovia osteggiando le imprese degli Avengers, la sua nuova carica pare instradarlo verso la cosa giusta da fare, anche se questo – per sua stessa ammissione – fa parte di una strategia politica. E così ci troviamo un Presidente Ross forte e stratega come lo conoscevamo, ma anche fragile e vulnerabile. Non è un caso se l’indole “fumantina” di Ross sarà il veicolo primario verso la sua trasformazione in Red Hulk, momento di grande spettacolarità che occupa il climax finale del film.
Da segnalare il ritorno di Isaiah Bradley (sempre interpretato da Carl Lumbly), l’anziano super-soldato visto in The Falcon and the Winter Soldier che qui ha un ruolo chiave nel piano del “gran cattivo” del film, e le new entries Joaquin Torres (Danny Ramirez), nuovo Falcon e spalla comica di Sam, e il temibile terrorista Sidewinder (Giancarlo Esposito), che ha un esiguo screentime ma lascia decisamente il segno. Discorso a parte per Rut Bat-Seraph, personaggio di spessore conosciuta sui fumetti come Sabra, primo super-eroe israeliano e mutante; il personaggio nel film è stato pesantemente modificato, è diventata capo delle guardie presidenziali con un passato nelle Vedove Nere e non ha super-poteri ma tanta determinazione; a interpretarla la bravissima Shira Hass, che abbiamo visto nella miniserie Netflix Unorthodox.
Nel complesso, Captain America: Brave New World funziona da ogni punto di vista, ha rispetto per i fumetti e per i film a cui si collega, sviluppa con intelligenza i personaggi di Sam Wilson e Thaddeus Ross e getta delle basi molto importanti per il futuro dell’MCU. Con questo tentativo di ritorno alle origini siamo sicuramente davanti a uno dei più riusciti film Marvel Studios del post- Endgame.
Sembra sempre superfluo dirlo, ma non alzatevi dalla poltrona fino alla fine di tutti i titoli di coda, c’è una scena bonus proprio in coda.
Roberto Giacomelli
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