C’era una volta il beat italiano, la recensione

In inglese il verbo “to beat” significa battere. Tump, tump, tump. Pensate alla batteria, al basso elettrico, alla chitarra. Una amalgama sonora che accompagna onomatopeicamente lo stesso termine Beat. E infatti Beat Music ha un significato quasi prevalentemente ritmico e solo marginalmente legato alla corrente culturale della Beat Generation che da Kerouac a Ginsberg si diffuse negli Stati Uniti negli anni ’50 del ‘900.

La musica Beat vede le sue origini nel Vecchio Continente, precisamente in Inghilterra negli anni ’60, in quel luogo e quel periodo che ha rappresentato per il settore musicale una delle più grandi rivoluzioni di sempre con la cosiddetta “british invasion”, che grazie a band come I Beatles e i Rolling Stones ha diffuso un nuovo modo di fare e pensare la musica.

Una musica che evidentemente nasceva dal rock’n roll americano ma trovava importanti influenze anche nello swing, nel folk e nel blues, anticipando di fatto il moderno pop. Ed è stato proprio grazie alla british invasion che in Italia ha preso piede la beat, anzi il bitt, espressione nazionalpopolare di quella corrente musicale che lanciò molti complessi svecchiando e ridefinendo il panorama musicale nazionale. Equipe 84, Caterina Caselli, Lucio Dalla, I Nomadi, I Profeti, Gian Pieretti, i The Rocks e poi ancora I Giganti, i Dik-Dik, i Corvi, i Camaleonti, Patty Pravo, un periodo colmo di talenti, di successi, di novità che ancora oggi cantiamo, celebriamo e ricordiamo con affetto, ammirazione e un pizzico di nostalgia.

Per omaggiare quella musica, per raccontare quegli anni e per spiegare un fenomeno che ha abbracciato il costume di un Paese, il regista Pierfrancesco Campanella ha realizzato un documentario intitolato C’era una volta il beat italiano, che arriva al cinema dal 21 novembre distribuito da Parker Film.

Campanella, che ricordiamo come regista del cult/trash Cattive Inclinazioni e recentemente tornato al genere anche con l’antologico Brividi d’autore, non è nuovo al documentario avendo firmato nel 2017 I Love… Marco Ferreri sul celebre regista de La grande abbuffata. Vedendo anche C’era una volta il beat italiano possiamo affermare che il genere documentario è decisamente quello in cui l’autore riesce a dare del suo meglio.

Strutturato in maniera molto classica come un collage di interviste, C’era una volta il beat italiano lascia raccontare il genere musicale a chi ha contribuito a svilupparlo, quindi le voci più autorevoli del settore. Ma oltre a musicisti e cantanti, il ricchissimo parco di intervistati conta anche discografici, esperti e critici che riescono a fornire nell’arco di circa 80 minuti un quadro davvero completo dell’argomento.

Da Don Backy a Ricky Gianco, da Renato Brioschi dei Profeti a Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik, da Livio Macchia dei Camaleonti a Gianni Dall’Aglio dei Ribelli, da Donatella Moretti a Mario Pavesi dei Fuggiaschi, a Giuliano Cederle dei Notturni. Poi nel documentario di Campanella troviamo anche il divertente contributo di Franco Oppini, che in quegli anni faceva parte dei Gatti di Vicolo Miracoli, massima espressione del movimento “Verona Beat”, e troviamo anche la presenza di Mita Medici, che è stata la prima “Ragazza del Piper” quando Patty Pravo ancora non era stata notata da Boncompagni e soci.

L’unico vero limite di un documentario ricco di aneddoti e di testimonianze interessanti è la mancanza di materiale di repertorio e, paradossalmente, di canzoni. Ovviamente qui entra in gioco una problematica dettata da copyright e SIAE, ma fa un po’ strano sentir parlare di canzoni e non poterle ascoltare, anche se la maggior parte sono talmente note che la memoria dello spettatore compensa questa mancanza. Diverso, invece, il problema dei materiali di repertorio, gran parte proprietà delle teche RAI, che avrebbero senz’altro aiutato in fase di montaggio a differenziare e spezzare la carrellata continua di interviste guarnite da copertine dei dischi a copertura.

Al netto di queste piccole limitazioni produttive, C’era una volta il beat italiano rimane un validissimo documentario che ha la duplice valenza di render noto in maniera approfondita un argomento anche a chi non lo conosce e allo stesso tempo fornire agli esperti una grande quantità di aneddoti curiosi e sfiziosi, raccontati direttamente dalla voce di chi è stato protagonista del beat.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Tante testimonianze interessanti.
  • Ricco di aneddoti inediti.
  • Racconta un argomento dal grande fascino.
  • Poter ascoltare le canzoni e vedere materiali di repertorio sicuramente avrebbe aiutato il doc in varietà e ritmo di montaggio.
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