Io, Daniel Blake, la recensione
Io, Daniel Blake, film con il quale il maestro Ken Loach ha conquistato la sua seconda Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, è la storia di un maturo carpentiere vedovo di Newcastle (Dave Johns) che, ancora lontano dalla pensione, si ritrova per la prima volta ad aver bisogno dell’aiuto dello Stato in seguito a un infarto. I medici gli sconsigliamo di continuare a lavorare eppure, per potere ottenere questo diritto, deve essere dichiarato ufficialmente “inabile al lavoro” dal Dipartimento del lavoro e delle pensioni. Nell’attesa del riconoscimento, incontra Katie (Hayley Squires), giovane madre single appena arrivata a Newcastle. Daniel troverà nella famigliola una ragione in più per intraprendere una battaglia contro lo Stato per affermare i propri diritti di uomo e cittadino.
Loach non si smentisce, dando vita a un vero e proprio manifesto umano e politico di cui non si percepisce affatto il peso. Al contrario, se ne respira l’urgenza, grazie all’empatia e al garbo degli attori protagonisti, che costantemente suggeriscono l’impressione di esser lì a lottare al loro fianco. Ma il merito va soprattutto a una regia discreta eppure senza filtri, che s’impegna a raccontare con veritiera dignità le afasie di un Sistema troppo spesso incline a negare diritti inalienabili.
Io, Daniel Blake mette in scena con autenticità una scala di sentimenti che vanno dalla rabbia, alla commozione, alla comprensione. Al tempo stesso, il messaggio arriva forte e chiaro: quando la burocrazia ha la meglio sulla ragione e la giustizia, non si può far altro che tentare di unirsi, svegliare le coscienze e fare ascoltare la propria voce. Il linguaggio filmico asciutto, mirato a favorire il realismo delle situazioni, non fa che sottolineare il valore umano e civile della storia di soprusi, più che mai attuale, raccontata da Loach.
Il grande regista inglese – che torna ad affidare la sceneggiatura al suo più importante collaboratore Paul Laverty – ha il merito di riuscire sensibilizzare il pubblico senza spettacolarizzare la sofferenza né scadere nella retorica dei ‘poveri’ vessati dai ‘più forti’. Non c’é traccia di facile pietismo e proprio per questo l’immersione spettatoriale è così forte e vivida. Perché siamo di fronte a un prodotto che, finalmente, trasforma l’uomo comune in eroe, insinuando coraggiosamente che Daniel potrebbe essere ciascuno di noi.
A metà tra la commedia e il dramma sociale, Io, Daniel Blake vi farà lasciare la sala con un sentimento di battagliera fiducia, sebbene priva di illusioni. E vi farà riflettere sul ruolo dello Stato, tanto dibattuto sui telegiornali e in politica, nelle nostre vite. Che futuro ci aspetta, se dobbiamo essere pronti addirittura a sacrificarci per diritti imprescindibili?
Chiara Carnà
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