Fino alla fine, la recensione del thriller di Gabriele Muccino

Sophie e sua sorella Rachel sono in vacanza in Italia e, il giorno prima di tornare negli Stati Uniti, le due decidono di fare una breve tappa a Palermo. È tanto noiosa e bacchettona Rachel, quanto vogliosa di svagarsi Sophie che conosce sulla spiaggia di Mondello Giulio e i suoi amici, prendendosi una cotta per il ragazzo. Giulio invita Sophie ad uscire quella sera e, nonostante le raccomandazioni della sorella, finisce irrimediabilmente nel mettersi nei guai perché Giulio e i suoi tre amici hanno una “missione” da portare a termine che condurrà la ragazza in un’escalation di follia e violenza.

Fino alla fine è un’inattesa (quanto gradita) ulteriore svolta nella carriera di Gabriele Muccino che, dopo la parentesi americana non sempre felicissima interrotta ormai da un decennio, gioca la carta dell’action/thriller dimostrando al pubblico che sa muoversi anche fuori dalla sua comfort zone del dramma sentimentale borghese. Ma la cosa curiosa è che Fino alla fine, nonostante i credits attribuiscano il soggetto allo stesso Muccino e a Paolo Costella – e qui ci sarebbe da analizzare i termini legali dell’operazione – è un remake di Victoria, un bel thriller tedesco del 2015 diretto e co-sceneggiato da Sebastian Schipper. I margini di cambiamento sono minimi e riguardano la location (qui Palermo e lì Berlino), la nazionalità (e il nome) della protagonista (qui è americana, lì era spagnola), il fatto che il film tedesco fosse girato con un unico pianosequenza e questo no, e la chiusura, molto più d’impatto e credibile quella del film originale.

FINO ALLA FINE

Al di là dell’inevitabile senso di déjà-vu in chi ha visto Victoria, Fino alla fine è comunque un lavoro davvero molto valido che ci fornisce due grandi conferme su Gabriele Muccino. In primis, il regista romano ha una capacità nel muovere la macchina da presa e nel costruire le scene che pochi altri in Italia hanno e, sicuramente, la sua esperienza a Hollywood ha inciso molto su come si approccia al mestiere di regista. Fino alla fine è un film tecnicamente molto complesso che poteva tranquillamente non esserlo, ma dal momento che l’originale tedesco utilizza il pianosequenza, Muccino decide di confrontarsi con una serie di scelte estetiche e tecniche davvero notevoli che contribuiscono ad amplificare il senso di tensione e concitazione che si respira nelle scene madri. Prendente le due sequenze in macchina prima e dopo il colpo, con inquadratura rotante in pianosequenza, oppure il lungo climax in albergo che mostra un montaggio serratissimo. C’è una struttura particolarmente articolata in questi momenti così come in diversi altri, soprattutto nella seconda metà del film, che fanno di Fino alla fine un film da Cinema e non da tv, cosa non scontata quando parliamo di un prodotto italiano di genere nel 2024.

FINO ALLA FINE

L’altra conferma è rappresentata dal fatto che Muccino ama il melò e riesce a inserirlo con una certa naturalezza anche nella trama di Fino alla fine. Il recente trauma che aleggia sul personaggio di Sophie è il primo passo verso la drammatizzazione di questa giovane donna che cerca una distrazione per sottrarsi a un lutto e la storia con Giulio – che ha proprio tutte le caratteristiche del tipico amore estivo – è servita su un vassoio d’argento, amplificata anche dalla voglia di disubbidire a una sorellastra pedante che gira il coltello nella piaga ogni volta che apre bocca. Ecco, quello della sorella (interpretata Ruby Kammer) è un personaggio scritto davvero male e abbastanza inutile all’economia generale del racconto (infatti assente nel film tedesco). La prima metà del film è molto debitrice al filone sentimental-melò adolescenziale, con personaggi in parte e una passione crescente che aiuta a tenere desta l’attenzione dello spettatore.

FINO ALLA FINE

La sospensione dell’incredulità spettatoriale viene fortemente chiamata in causa, però, quando Sophie si trova repentinamente ad essere una criminale determinata e solo un minuto prima era una ragazzina sprovveduta e traumatizzata.  In questo passaggio, narrativamente grezzo, qualcosa si rompe e non aiuta neanche l’interpretazione della protagonista Elena Kampouris che a tratti fatica a convincere proprio nel mostrare la doppia faccia del suo personaggio.

Nel gruppo di giovani attori, rappresentati anche da Saul Nanni (Io sono l’abisso, Brado) nel ruolo di Giulio, Enrico Inserra e Francesco Garilli, a colpire maggiormente è Lorenzo Richelmy (L’uomo sulla strada, Dolceroma) che interpreta Komandante, il leader del gruppo di ragazzi palermitani, irruento, estroverso e con troppi scheletri nell’armadio, troppo ingenuamente etichettato da Sophie come un buono.

FINO ALLA FINE

Nonostante il drastico cambio di genere, Fino alla fine probabilmente non piacerà ai detrattori di Muccino perché c’è quella caratteristica del suo cinema impugnata come un’arma da chi l’ha sempre stroncato, ovvero una tendenza dei personaggi ad urlarsi addosso, ad essere agitati ed esagitati come se fossero costantemente sotto l’effetto di cocaina. È un marchio di fabbrica, probabilmente, fatto sta che Fino alla fine per lo più funziona e se il merito del buon soggetto arriva dall’altra parte delle Alpi, la tecnica è tutta italiana.

Fino alla fine è stato presentato in anteprima alla 19ª Festa del Cinema di Roma e arriverà nelle sale il 31 ottobre distribuito da 01 Distribution.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • È avvincente e molto ritmato.
  • Alcune belle trovate di regia.
  • Riprende molto fedelmente il film tedesco Victoria, quindi nulla di nuovo se si conosce già l’altro.
  • Il repentino cambiamento di carattere della protagonista non è credibile.
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