La città proibita, la recensione

Con l’uscita al cinema del film La città proibita di Gabriele Mainetti, riecheggia nell’aria un titolo che ha segnato in maniera indelebile il cinema di arti marziali: L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972). Il film scritto, diretto e interpretato da Bruce Lee e uscito in Italia nel 1974 è sicuramente la prima reference del regista romano, considerando sia la sua particolare ambientazione capitolina che la presenza di un ristorante bramato dalla mafia come luogo centrale nel racconto.
Ma il terzo film della saga di Chen non era di certo l’unico che portava all’incontro delle culture italiana e cinese, infatti, sull’onda del successo nel nostro Paese dei film di kung-fu prodotti in Cina, nascevano opere che volevano richiamare questa moda, parodizzandola – come accadeva in Ku-Fu? Dalla Sicilia con furore con Franco Franchi – o contaminandola con altri generi – si pensi a Il mio nome è Shangai Joe di Mario Caiano, vero e proprio western di arti marziali. Ma guardando La città proibita e come si inserisce a gamba tesa anche nel genere comedy smaccatamente romanesco con ambientazione a est del centro storico della Capitale, non può che tornare alla memoria anche il cultissimo Delitto al ristorante cinese di Bruno Corbucci, ottavo film della saga di Nico Giraldi che vedeva Tomas Milian alle prese con un intricato caso di spionaggio, ristoranti asiatici, arti marziali e criminalità cinese.
Senza considerare il rinnovato interesse delle produzioni cinematografiche italiane per le arti marziali sul finire degli anni ’80, dopo il successo di Karate Kid con la saga de Il ragazzo dal kimono d’oro e altri prodotti minori come Karate Rock, discipline come karate, judo, kung-fu e soprattutto MMA tornano protagoniste nel cinema italiano anche del nuovo millennio toccando vari generi. Basti pensare agli action/trash con Claudio Del Falco (Karate Man, The Iron Fighter, The Martial Avenger), la commedia demenziale con Lillo Petrolo Grosso Guaio all’Esquilino o i ben più ambiziosi (e meritevoli) The Cage – Nella gabbia di Massimiliano Zanin e Mani nude di Mauro Mancini.
Timidi tentativi di omaggiare in maniera più o meno esplicita il cinema d’arti marziali internazionale fino ad arrivare alla sublimazione di questo incontro di culture e cinematografie proprio con il terzo film di Gabriele Mainetti, che dopo i super-eroi all’amatriciana di Lo chiamavano Jeeg Robot e gli X-Men Partigiani di Freaks Out sfoggia un invidiabile maestria proprio con il kung-fu movie.
Dopo un prologo ambientato nel passato, in Cina, dove una famiglia è costretta a nascondere la loro secondogenita dai controlli del Regime per la politica del figlio unico, c’è un salto temporale di almeno venticinque anni che ci porta nei panni di Mei, una ragazza cinese alla ricerca della sorella scomparsa, finita in un giro di prostituzione gestito nei sotterranei del locale di Mr. Wang, il ristorante La città proibita.
Gli entusiasmanti primi quindici minuti del film di Mainetti ci immergono in atmosfere indistinguibili dai migliori action-movie internazionali, con una palese strizzata d’occhio al fenomenale The Raid (2011) di Gareth Evans: Mei, interpretata dalla talentuosissima Yaxi Liu, affronta dozzine di avversari risalendo dai sotterranei del ristorante, esibendosi in spettacolari coreografie con utensili da cucina fino a sbucare nella sala del locale popolata da clienti. Ma quella che sembra a tutti gli effetti una location asiatica rivela di essere solo il cuore di una comunità cinese nel quartiere Esquilino di Roma, quando Mei esce dal ristorante palesando l’ubicazione nei pressi di Piazza Vittorio della Capitale.
Un inizio folgorante che immerge lo spettatore in un contesto davvero straniante per un film italiano, fatto di volti e sequenze d’azione decisamente sui generis. Ma “l’ordine” viene presto ristabilito quando ci viene presentato il cast romanissimo del film che popola un altro ristorante, chiamato Da Alfredo, e sempre ubicato all’Esquilino, proprio sotto i portici di Piazza Vittorio. Qui Mei cerca la sorella, indirizzata da un’anziana donna incontrata nel bordello de La città proibita, ma trova Marcello, cuoco e figlio del titolare, anche lui alla ricerca di un padre misteriosamente scomparso.
In La città proibita Mainetti unisce idealmente la cultura italiana, anzi romana, con quella cinese mostrando, però, un palese disequilibrio che porta il film a pendere più verso la prima. Perché dopo il folgorante primo quarto d’ora – che vale da solo il prezzo del biglietto del cinema – il film si avventura in territori puramente action un altro paio di volte, sempre con risultati entusiasmanti. Per la sua componente più consistente, invece, La città proibita guarda alla commedia, sfoggiando i caratteristici volti di Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti.
Ma la commedia non è esattamente la proverbiale “tazza di thè” di Gabriele Mainetti, lo aveva dimostrato anche in quei rari momenti “brillanti” di Lo chiamavano Jeeg Robot, e a tratti il film inciampa in quello che è palesemente il tentativo di catturare il pubblico generalista italiano. Il film non implode su se stesso, fortunatamente, ma si ha costantemente la sensazione che ci sia troppa commedia “non sentita” e troppa poca azione, come se le tre firme alla sceneggiatura – Stefano Bises, Davide Serino e lo stesso Mainetti – abbiano dovuto trovare un qualche compromesso.
Oltre all’ottima Yaxi Liu, che ha in curriculum il ruolo di stunt per il Mulan live-action della Disney, a dividere lo schermo troviamo il romanissimo Enrico Borello, volto interessante già visto nella commedia Settembre, nella miniserie su Rocco Siffredi Supersex e nel drammatico Familia, che cerca come può di consolare la madre (una Sabrina Ferilli un po’ spaesata), tenere a bada la scatenata cinese (e innamorarsene), scoprire cosa è accaduto al padre (Zingaretti, che ha pochissime scene) e gestire l’irruenza dello strozzino – amico di famiglia – Annibale. Proprio quest’ultimo è uno dei ruoli migliori di tutta la carriera di Marco Giallini, scritto con cognizione di causa e interpretato con un’intensità che sembrava un po’ perduta nella recente filmografia dell’attore romano.
Nota a margine per il modo in cui Mainetti inquadra Roma. Se escludiamo un momento volutamente turistico notturno che omaggia in maniera palese Vacanze romane, quella de La città proibita è una Capitale multietnica che ruota tutta attorno a Piazza Vittorio, tra mercati (quello all’aperto che non c’è più e quello al chiuso), vicoli fatiscenti, spazi verdi e marciapiedi affollati. Il tutto un po’ edulcorato in confronto allo squallore che il romano ben conosce, ma altamente suggestivo.
La città proibita è un passo indietro in confronto all’ambizioso e compiutissimo (ma non del tutto capito) Freaks Out, su cui pesa il dazio di dover piacere anche e soprattutto a un pubblico generalista, quello che premia le commedie di Genovese e Milani, anche se quello di Mainetti è cinema diverso, intellettuale nell’accezione nerd del termine, legato ai generi meno frequentati dal cinema italiano e per questo praticamente unico.
Roberto Giacomelli
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