Leatherface, la recensione
Arriva un momento in ogni grande saga horror in cui le idee finiscono. È una questione fisiologica: dopo 5, 6, 7 film, ci si comincia ad arrampicare sugli specchi. Qualcuno sceglie di far scontrare i villains rappresentativi del franchise con improbabili nemesi o tra di loro, qualcun altro si abbandona all’inevitabile remake e poi c’è chi esplora le origini con immancabili prequel. A quest’ultima soluzione ci sono passati un po’ tutti, da Freddy Krueger con sprazzi nel sesto film a Michael Myers nella versione di Halloween firmata da Rob Zombie, fino a Pinhead e i suoi cenobiti con frammenti di passato nel terzo e quarto film della saga di Hellraiser. All’appello mancano giusto due “mostri”, Jason di Venerdì 13, di cui però il passato lo conosciamo bene fin dal primo film attraverso flashback e racconti, e Leatherface di Non aprite quella porta, la cui storia è sempre stata un po’ fumosa a causa di un caotico andirivieni all’interno della saga, dove tra reboot, remake e sequel “traditori” si è riscritta di continuo la mitologia e l’albero genealogico.
Nonostante nel 2006 Jonathan Liebesman avesse già diretto il prequel Non aprite quella porta: L’inizio, che insieme al film del 2003 di Marcus Nispel creava un ideale dittico separato dalla saga principale, non abbiamo mai avuto una versione chiara e ufficiale del passato di Leatherface e di come sia diventato il mostro senza volto armato di motosega che tutti conosciamo. Per colmare questa lacuna sono stati chiamati i francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury, che danno vita a uno dei capitoli più brutali e meglio riusciti della saga di Non aprite quella porta, che prende il nome proprio dal suo protagonista: Leatherface.
Fortunatamente, grazie all’intuizione dello sceneggiatore Seth M. Sherwood, Leatherface riesce ad evitare quella proverbiale sensazione di raschiamento del barile che in diverse occasioni si era notata in questa saga e ne viene fuori un film compatto e ben strutturato che riesce ad evadere la ben nota struttura narrativa che caratterizza tutti i film della saga.
Con l’intenzione di creare un’ideale quadratura del cerchio che possa formare una trilogia insieme al Non aprite quella porta originale e Non aprite quella porta 3D del 2013, Leatherface inizia nel 1955, quando per il suo compleanno al piccolo Jed Sawyer viene regalata una motosega dai sui folli famigliari e servita una vittima sacrificale per iniziarlo all’omicidio. Nonostante la sua riluttanza, il bambino si fa veicolo delle malefatte della famiglia Sawyer, tra le quali l’omicidio della figlia dello sceriffo Hartman, che giura vendetta e come prima cosa fa rinchiudere Jed in una casa di correzione e i suoi fratelli in carcere.
Passano 10 anni, l’infermiera Lizzy è al suo primo giorno di lavoro nella casa di correzione in cui fu rinchiuso Jed e proprio quel giorno Verna, matriarca della famiglia Sawyer, si presenta all’istituto con un avvocato intenzionata a riprendersi suo figlio, che nel frattempo ha assunto un nuovo nome. L’intervento di Verna causa una rivolta tra i pazienti con la tragica morte di alcuni inservienti e la fuga di quattro pazienti, che prendono in ostaggio Lizzy. Tra di loro c’è anche Jed, mentre lo sceriffo Hartman si mette sulle loro tracce per assicurare al carcere il figlio dei Sawyer, ormai alla soglia della maggiore età.
Con un colpo di genio che non ci saremmo aspettati, Leatherface è una scheggia impazzita che abbandona la costruzione nota a tutti per portare in scena un brutale thriller on the road fondato sul principio del whodunit: chi è Jed, ovvero Leatherface, tra i pazienti dell’istituto? Il mistero rimane abilmente fino all’inizio del terzo atto ed è lodevole l’abilità dello sceneggiatore e dei due registi nell’impresa di depistaggio, legata principalmente al “parlare d’altro”. Durante l’ora e quaranta minuti di Leatherface, infatti, succedono davvero molte cose e l’interesse dello spettatore è catturato dalle disavventure di Lizzy (Vanessa Grasse), i tentativi di Jackson (Sam Strike) di proteggerla, le malefatte degli amanti psicopatici Ike (James Bloor) e Clarice (Jessica Madsen, fantastica!) e le incursioni dell’ingombrate Bud (Sam Coleman). Poi c’è la caccia forsennata del vendicativo sceriffo (vero villain del film, anche se agisce nel “giusto”) interpretato da Stephen Dorf e quindi il gioco del “chi è Jed?” riesce a passare sullo sfondo senza mai essere dimenticato.
Sherwood, già sceneggiatore di Attacco al potere 2, riesce a costruire una personalità ben sfaccettata e credibile per tutti i personaggi in scena e malgrado qualche scivolone nei cliché horror che fanno inevitabilmente bollare come “stupidi” alcuni comportamenti, possiamo riconoscere a Leatherface una cura di scrittura che nessuno si aspetterebbe dall’ottavo capitolo di una saga iniziata più di quarant’anni fa.
Grande merito della riuscita del film va ai due registi, che hanno un gusto estetico per le situazioni malsane davvero notevole e capace di rendere elegante anche la scena gore più estrema. Con un occhio verso l’affettuosa citazione del capolavoro di Tobe Hooper (l’inquadratura dal fondoschiena dell’attrice che si dirige verso la casa del massacro, il lampo della macchina fotografica legato al cacofonico rumore dello scatto), Maury e Bustillo portano in Leatherface le atmosfere malate che li hanno resi noti al pubblico di settore (ricordiamo che sono registi del magnifico Inside – A l’interieur e Livide) e che si sposano alla perfezione con i dettami di Non aprite quella porta.
Un lavoro notevole, dunque, che arriva nei cinema poche settimane dopo la tragica notizia della scomparsa del grande Tobe Hooper, anche produttore esecutivo di Leatherface. Ma Hooper può andare fiero dell’eredità lasciata per la sua creatura: Non aprite quella porta rimarrà sempre nell’olimpo dei capolavori della storia del cinema e Maury e Bustillo lo hanno omaggiato come si deve.
Roberto Giacomelli
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