L’orto americano, la recensione del giallo gotico di Pupi Avati

Pupi Avati è uno degli autori più poliedrici del cinema italiano e ce lo sta dimostrando da più di cinquant’anni. Dal dramma alla commedia fino al melò, passando in maniera indelebile sul thriller/horror, genere per il quale di sovente è citato e celebrato. Con L’orto americano, Avati torna proprio in quei territori oscuri, in un incubo semi-gotico che si ambienta per metà nella sua Emilia-Romagna e per metà nell’Iowa.
Durante la Liberazione, a Bologna, un giovane aspirante scrittore rimane colpito da un’infermiera americana che gli chiede indicazioni per raggiungere Ferrara. Un anno dopo, quel giovane si è trasferito in America, nell’Iowa, per cercare lavoro e stringe amicizia con l’anziana vicina di casa, afflitta per la scomparsa della figlia, infermiera di guerra mai tornata dall’Italia. Il ragazzo capisce che quella donna scomparsa è proprio colei che un anno prima le aveva chiesto indicazioni e promette all’anziana che l’avrebbe ritrovata. Ma più passano i giorni, più nel ragazzo si insinua il sospetto che quell’infermiera sia morta e l’orto della vicina di casa potrebbe confermare i suoi timori.
L’orto americano è una storia d’amore, anzi la storia di un’ossessione d’amore, quella di un ragazzo per una ragazza che però non conosce, della quale si è innamorato al primo sguardo e che poi non ha mai più rivisto. Ma L’orto americano è soprattutto un giallo, un’indagine senza polizia, la disperata ricerca di quell’amore attorno alla quale ruota un mistero sempre più fitto. Però L’orto americano è anche film dell’orrore perché sulla ricerca della ragazza pesa anche una dimensione soprannaturale, fatta di voci dall’oltretomba, di inquietanti incubi lynchiani; il ché porta L’orto americano anche ad essere un film sulla malattia mentale, la storia di un ragazzo che parla con i morti, o crede di farlo, che entra ed esce dagli ospedali psichiatrici.
L’orto americano porta dentro di sé tanti argomenti, molte suggestioni, numerosi spunti di lettura, ma ha sempre e comunque un’anima avatiana fortemente riconoscibile. La ricerca di una verità che ruota attorno a una misteriosa morte era già nel jazz-thriller Bix, che si ambientava negli Stati Uniti, dove si ambientava anche Il nascondiglio, anzi, questo era locato nell’Iowa proprio come L’orto americano, con il quale non solo condivide il tema della malattia mentale recidiva (forse), ma anche la presenza dell’attrice Rita Tushingham, che nel film più recente è l’anziana e malata vicina di casa.
Pupi Avati, però, non vuole (solo) autocitarsi perché L’orto americano è un film che cammina sulle sue gambe e possiede una forza narrativa che trova nella continua mescolanza di generi e di temi un grande punto di forza. Pupi Avati, all’età di 86 anni, realizza quasi un’opera sperimentale nella quale cerca di fondere il cinema di ieri e di oggi per dar vita a un corpo estraneo all’interno della produzione cinematografica italiana contemporanea. Il bianco e nero (la suggestiva fotografia è di Cesare Bastelli) ci scaraventa immediatamente nel contesto storico post-bellico e anche il particolarissimo commento musicale che sembra voler citare La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak ci suggerisce la stessa epoca. L’orrore evocato da Avati è quasi esclusivamente psicologico, fatto di ombre e di silenzi, oppure da esplosioni oniriche come il contenuto del vaso che il protagonista trova nell’orto. Ma a poco a poco L’orto americano si fa sempre più tangibile e nonostante non abbandoni mai le presenze spettrali che hanno il compito di rivelare l’ignoto, si affida alla presenza terrena di un serial killer.
Ad un certo punto, l’indagine sfocia nel thriller processuale e il film trova perfino una parentesi in manicomio per sottolineare la psiche borderline del protagonista. Un protagonista che ha lo sguardo volutamente smarrito del bravissimo Filippo Scotti, già attore principale per Sorrentino in É stata la mano di Dio. A lui si affiancano tutta una serie di attori noti ma poco sotto i riflettori, come Roberto De Francesco, Chiara Caselli, Armando De Ceccon, Morena Gentile e, in ruoli minori, gli avatiani Massimo Bonetti, Nicola Nocella e Andrea Roncato. Tutti diretti come si deve, perfettamente aderenti ai loro personaggi e al servizio di una storia tanto complessa quanto affascinante.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Pupi Avati insieme al figlio Tommaso, poi sviluppata come romanzo, presenta senz’altro delle forzature, le classiche euristiche narrative che ogni giallo fa sue, ma funziona nel complesso e risulta intrigante, coinvolgente e molto articolata.
Sicuramente L’orto americano non è un film adatto a tutti, probabilmente non per il giovane pubblico, nonostante il carattere da thriller soprannaturale; è un film che va capito e contestualizzato nell’opera omnia del suo autore. Se si riesce a intercettare le giuste corde, però, è un film che conquista dal primo all’ultimo minuto.
Presentato in concorso alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia, L’orto americano arriva nei cinema italiani dal 6 marzo 2025 distribuito da 01 Distribution.
Roberto Giacomelli
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