Maria: Angelina Jolie è Maria Callas nel biopic di Pablo Larraìn. La recensione da Venezia81
Al terzo giro, il regista Pablo Larraìn è visto ormai come specializzato in biopic atipici dedicati a grandi donne del Novecento traumatizzate ma impeccabili, carismatiche ma fragili, schiacciate dalle ombre e dal peso di qualcosa di più grande di loro. In Jackie, del 2016, Natalie Portman portava in scena una donna passata alla storia per essere moglie (di John F. Kennedy) e che fece proprio della perfezione apparente la sua migliore armatura, anche di fronte al ciclone di cui fu al centro esatto in mondovisione. In Spencer, 2021, Kirsten Stewart ci regalava una principessa Diana ostaggio della famiglia reale e infestata dai fantasmi del passato. In Maria, infine, Angelina Jolie ci restituisce la personalità non facile di Maria Callas, una donna questa volta fagocitata non tanto dagli obblighi, dai compagni di vita o dall’immagine pubblica, quanto da se stessa, dall’impossibilità di sopravvivere al proprio enorme talento.
Tre film che sono anche tre grandi one-woman show per le loro interpreti, costruiti apposta per permettere loro di brillare in un ruolo facile, materiale per coppe, globi e statuette. In questo caso, Jolie non insegue una performance mimetica come quella della Stewart ma si impegna piuttosto a incarnare il concetto in sé che Maria Callas simboleggia nei suoi ultimi anni, il dramma del talento puro alle prese con il trascorrere del tempo: in qualche modo la protagonista di questo film ci ricorda molto facilmente la Gloria Swanson di Viale del tramonto, prigioniera della sua enorme casa e del mito di se stessa.
In occasione della prima del film alla Mostra del Cinema di Venezia, quest’atmosfera pervasiva fatta di solitudini, di ricordi, di silenzi ed enormi stanze vuote è stata percepita da molti come una pesantezza della messa in scena, ma io credo che esprima in maniera molto precisa il punto che si vuole fare del personaggio: c’è stata “La Callas” e c’è Maria – come nel film su Diana l’uso del cognome nel titolo aveva un senso, anche qui la scelta del nome proprio non è casuale – e il film nella sua interezza è da intendere come Maria che elabora il lutto: La Callas è morta prima di lei e il film inizia e si chiude con lei che deve fare i conti con il continuare a sopravvivere alla sua “sé” migliore.
Certo, forse Spencer è quello che più e meglio, tra i tre film, aveva saputo raccontare la psicologia di un personaggio attraverso la messa in scena e la regia: era stata geniale, a suo modo, l’idea di rappresentare un punto di svolta nella psicologia di Diana attraverso una sorta di horror emotivo. Lì, in assoluto, si è raggiunto un equilibrio ottimo tra natura di biopic e graffio artistico del regista. Ma con Maria la direzione intrapresa è comunque simile: stavolta lo spettro, in un certo qual modo, è la protagonista stessa, e la regia ce lo suggerisce in molti modi e forme.
Si ha l’impressione che Angelina Jolie abbia caricato molto di sé nel personaggio, trovando il suo personale gioco di specchi nell’immedesimazione, il che accende la sua Maria di verità e umanità. È una figura deliberatamente antipatica, algida, divina e infantile insieme – proprio come la Norma di Gloria Swanson – soprattutto nel suo essere accudita come una bambina dai due affezionatissimi domestici, interpretati rispettivamente tra l’altro dai “nostri” Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher. Il paziente maggiordomo impersonato da Favino, in particolare, è un personaggio che fa quasi da contraltare alla protagonista e riveste un ruolo funzionale importante perché spesso, quasi inconsciamente, ci ritroviamo a guardarla attraverso i suoi occhi indulgenti. Che sono quelli della famiglia, dell’amico e, in qualche modo, dell’ammiratore devoto, l’unico già consapevole che quel talento non tornerà più, ma che non smetterà mai di venerarla in ragione di ciò che è stato. Senza il Ferruccio di Favino, forse non avremmo provato la stessa tenerezza e compassione per Maria, che di suo non aveva dichiaratamente intenzione di essere amabile.
Il film è, nel complesso, ben costruito, ben diretto e gravitato da un’interpretazione intensa e autentica, costruisce una circolarità narrativa efficace e ben calibrata, va a parare dove deve: manca solo, forse, di quella piccola spinta in più che possa elevarlo all’interno della categoria dei biopic e renderlo memorabile.
Francesca Bulian
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