In nome di mia figlia, la recensione

Quanto lontano può spingersi l’amore di un padre per una figlia? È forse possibile porre dei limiti (temporali etici di opportunità) al desiderio di giustizia?

In nome di mia figlia è costruito sulla ripetizione ossessiva di domande scomode in cerca di risposte soddisfacenti, risposte che per quanto non arrivino mai a delinearsi in totale compiutezza conservano tuttavia una capacità di suggestione malinconica e agghiaccianti risvolti di verità.

La vicenda umana alla base del film, realmente accaduta va sottolineato, è di un interesse totale: la strenua e tenacissima lotta in cui si imbarca il commercialista francese André Bamberski che nel 1982 perde, in circostanze apparentemente poco chiare, la figlia adolescente Kalinka mentre quest’ultima si trova in vacanza in Germania con la madre e il patrigno, il medico tedesco Dieter Krombach. Proprio in quest’ultimo il nostro protagonista si convince di rintracciare l’assassino (e non solo) della ragazza, dando il via a un duello giudiziario – diplomatico – burocratico estenuante nella sua durata pluridecennale.

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André Bamberski è restituito sullo schermo con dignità, dolcezza e grande rigore dal sempre efficace Daniel Auteil. La sua intelligente interpretazione vive di toni smorzati, di silenzi interrotti da improvvise deflagrazioni emotive, di stanche parole e di feroce determinazione. Presenza costante sullo schermo, è il collante emotivo e narrativo del racconto.

Non è casuale che una storia di questo genere passi tra le mani di Vincent Garenq: nel curriculum del cineasta francese un’attenzione partecipe allo svelamento in sede giudiziaria di verità scandalose. Nella varietà delle ambientazioni suggerita da prevedibili variazioni dei toni cromatici (Marocco, Francia, Germania), nello scorrere inesorabile degli anni, dei molti anni di cui si compone questa storia, frazionati attraverso un uso costante (forse inevitabile ma un po’ irritante) delle ellissi in una miriade di piccoli frammenti di lotte, sentenze, attese più o meno frustrate, non riposa però l’interesse principale del film. Intendiamoci, né la giustizia francese né tantomeno quella tedesca sfuggono ad un’esposizione impietosa delle proprie mancanze: la prima, debole e inefficace, e forse poco interessata alle doglianze di Bamberski. La seconda, scandalosamente ostruzionista, per via della sua indisponibilità a permettere il giudizio di un proprio cittadino da parte di un tribunale straniero.

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L’odissea interiore di Auteil/Bamberski, il senso della sua lotta, lo sconfinato amore per la figlia, l’indisponibilità a farsi da parte finchè giustizia non sia fatta una volta per tutte: è qui che poggia inequivocabilmente il cuore del racconto. Tuttavia, la regia di Garenq non matura la saldezza e la profondità necessaria per portare alle estreme conseguenze il discorso intrapreso: lo studio del personaggio principale manca in parte di spessore: laddove l’intenso amore e il senso di responsabilità del padre verso la figlia è reso senza furbizie particolari e con decoro e partecipazione, ciò che manca davvero è una riflessione più seria sul versante più scomodo della personalità di Bamberski: la pulsione nevrotica, ossessiva, la vena di follia che lo spinge a dar battaglia senza requie anche a fronte di una serie frustrante di vicoli ciechi giudiziari, e che colora di sfumature un po’ inquietanti la personalità del protagonista. Il suo disperato bisogno di giustizia sembra talvolta trascendere l’oggetto stesso della causa.

Tuttavia questo aspetto resta sullo sfondo, opaco, impreciso, evocato marginalmente: non si può ignorarlo, si vorrebbe saperne di più, non si viene accontentati.

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In nome di mia figlia risponde con semplicità e immediatezza al primo dei due interrogativi sottolineati in calce a questa recensione e la risposta, banale come solo le grandi verità della vita sanno essere è: molto, molto lontano. L’impossibilità di rispondere appieno al secondo quesito regala al film un’ambiguità e un senso di disorientamento molto interessante, ma anche l’ombra, il sospetto del film che avrebbe potuto essere e non è stato del tutto.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
La convincente prova d’attore (come al solito) di Daniel Auteil.

 

Bamberski monopolizza il film, giustamente si può dire, a scapito di alcune figure che avrebbero comunque meritato un po’ più di spazio. Mi riferisco in particolar modo al personaggio della madre della ragazza, e alla sua sconcertante volontà di negazione del crimine.
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