Parthenope, la recensione del film di Paolo Sorrentino

Come per alcuni dei più importanti e discussi registi della storia del Cinema, nella filmografia di Paolo Sorrentino c’è un ingombrante spartiacque, un punto di non ritorno capace di influenzare tutta la carriera successiva dell’autore. Ovviamente parliamo de La Grande Bellezza, opera che è valsa all’autore un Oscar e che è entrata di diritto tra i film italiani più influenti del XXI secolo. È da quel momento che Sorrentino ha rinforzato il suo èpos e consolidato il suo stile, uno stile così forte e riconoscibile da attirare immancabilmente su di sé tante lodi quante più critiche.

Non sfugge alla regola Parthenope, decimo lungometraggio per il cinema del regista napoletano, quarto post-La Grande Bellezza. E molto più di Youth, Loro ed È stata la mano di Dio, Parthenope si specchia nel successo del 2013 mostrando un prepotente parallelismo stilistico e narrativo con La Grande Bellezza. Ma sarebbe ingiusto, nonché superficiale, bollare Parthenope come “La Grande Bellezza a Napoli”, perché ha una sua filosofia, una particolare sensibilità, una visione molto intima dei rapporti personali e delle esperienze vissute e, soprattutto, arriva chiaramente dopo un importante percorso autoriale, assorbendo umori e suggestioni anche dalle altre opere recenti dell’autore.

Parthenope è il nome di una sirena il cui corpo esamine naufragò sull’odierno lungomare di Mergellina, a Napoli, ma Parthenope è anche il nome storico della stessa Napoli quando nell’VIII secolo fu fondata dai Cumani.  Però Parthenope è anche il nome di una bellissima ragazza, partorita nell’acqua, come una sirena, nella spiaggia antistante a una villa di Posillipo. Ed è proprio la storia di questa ragazza, nel corso degli anni ’70 del Novecento, che seguiamo nell’accorato racconto di Sorrentino. La famiglia, gli amori, le esperienze, il dolore, le scelte non sempre felici, in un ritratto che descrive Parthenope e la città che la ospita attraverso gli sguardi di chi l’ha conosciuta, amata e giudicata.

Parthenope è interpretata dall’esordiente Celeste Dalla Porta, bellezza tipicamente mediterranea anche se è nata a Milano, ed è attorno alla sua figura che Sorrentino costruisce l’intero film.

Parthenope è bellissima e seducente, anche se lei non fa nulla per scatenare il suo fascino tantomeno lo usa come un’arma o un’esca; è come una sirena, ammalia attraverso il canto, è la sua natura. Ed è proprio il mondo che gira attorno a lei a rappresentare l’ossatura del film. Perché lo sguardo dell’autore non coincide (quasi) mai con quello della sua protagonista, ma con quello dei numerosi osservatori che la incrociano lungo il loro cammino, si girano a guardarla, ne rimangono stregati, se ne innamorano.

Un po’ come il Silvio di Loro, Parthenope vive attraverso il contesto che la circonda e che ne viene irreversibilmente influenzato, solo che, a differenza del Silvio di Loro, quel contesto sembra non esistere senza di lei. Perché Parthenope non è solo un amore giovanile che segnerà indelebilmente la vita dei suoi coetanei (e non solo), ma è letteralmente quel contesto. Parthenope è Napoli.

Sorrentino gioca, neanche troppo sottilmente, con la doppia lettura del suo racconto che crea un costante parallelismo tra Parthenope e Parthenope. Un luogo che esprime tutta la sua bellezza e il suo fascino attraverso quella moltitudine di contraddizioni che la caratterizzano, una città instabile fin dalle sue fondamenta che, a poco a poco, è diventata un modo di essere. O forse lo è sempre stato.

Paolo Sorrentino utilizza questo magnifico affresco per esprimere tutto il suo amore per Napoli ma, allo stesso tempo, per urlare la sua riluttanza (o quella che vive nel luogo comune) per una città che, nel tempo, ha cannibalizzato se stessa. E lo fa attraverso il lancinante discorso della Diva Greta Cool – interpretata da Luisa Ranieri – grottesca rappresentate dello star system nostrano che rigetta tutto il suo livore verso la città che le ha dato i natali.

Questo è uno dei pochi momenti in cui Parthenope è un’osservatrice e non un’osservata, uno di quei momenti in cui emerge il vero significato dell’antropologia, disciplina studiata dalla protagonista e sulla quale si interroga e interroga il suo professore, interpretato da un magnifico Silvio Orlando. Perché vedere (in profondità) è il fine di Parthenope ed è anche quello che è chiamato a fare lo spettatore.

Il tema della visione antropologica, l’intreccio di sguardi che si fa analitico, è quello che porta Parthenope ad essere un film fatto di punti di vista. Ed è bellissimo assistere a un “circo” di personaggi così variegato e fantasioso, interpretato da attori fantastici che danno vita a personaggi altrettanto riusciti. Il su citato Professor Marotta di Silvio Orlando ne è l’apoteosi, ma il vescovo interpretato da Peppe Lanzetta, a cui è affidato il Miracolo di San Gennaro, è un altro pezzo da 90 che va a rimarcare l’ossessione di Sorrentino per l’aspetto più grottesco e pittoresco della religione e del mondo ecclesiastico, fatto in primis di “mostri”.

C’è poi la già citata Greta Cool ma ricordiamo anche la Flora Malva di Isabella Ferrari, coach di attori che vive in solitudine e nasconde il suo volto deturpato dalla chirurgia estetica dietro una maschera. Poi c’è lo scrittore americano John Cheever (realmente esistito) interpretato da Gary Oldman, che si è autoesiliato a Napoli per espiare con l’acool i suoi “peccati” sessuali, e il boss dei Quartieri interpretato da Marlon Joubert, che conduce Parthenope in un tour di quella Napoli più popolare e miserabile, spesso nascosta, per osservare (in maniera antropologica, ovviamente) il rito della “fusione” tra famiglie della criminalità organizzata.

Ma Parthenope è anche un film estremamente malinconico perché racconta il lutto, le colpe, il giudizio spietato di chi si ama, le scelte irreversibili, il rimpianto e l’abbandono. È un film che scava nel profondo dello spettatore e, se capace di toccare le corde giuste, lo lacera con convinzione lasciando quel magone che non ha intenzione di abbandonarti neanche ore e ore dopo aver terminato la visione.

“A cosa stai pensando?”, domandano a più riprese a Parthenope. A cosa pensa lo spettatore uscito dalla sala? La sensazione è estremamente soggettiva e mai come stavolta Sorrentino si affida al vissuto dello spettatore, alla sensibilità di chi guarda. Ovviamente, se non vi piace la strada presa dall’autore da La Grande Bellezza in poi, difficilmente un film come Parthenope potrà catturarvi. Ma se si è disposti a stare al gioco, a mettersi a nudo di fronte a questo spettacolo così intimo eppure universale, Parthenope potrebbe davvero stupirvi.

E poi, parafrasando Renato Pozzetto ne Il ragazzo di campagna che si fermava con i compaesani a osservare il passare del treno: <<Eh, Sorrentino è sempre Sorrentino…>>.

Presentato in concorso al Festival di Cannes, Parthenope sarà in anteprima (solo spettacoli di mezzanotte!) in alcuni cinema selezionati dal 19 al 25 settembre per uscire, poi, in tutte le sale dal 24 ottobre 2024 distribuito da Piper Film.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • È un film molto toccante che sa come toccare le giuste corde.
  • Il cast nel suo complesso, con una menzione particolare alla promettente protagonista.
  • Tutti i personaggi di contorno, scritti e interpretati benissimo.
  • Se non vi piace lo stile di Sorrentino, Parthenope ne è un concentrato, con tanti elementi che ricorrono nei suoi film degli ultimi 10 anni.
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