Presence, la recensione della ghost story concettuale di Steven Soderbergh

Presence di Steven Soderbergh non è la solita ghost story. Anzi, è l’esatto contrario della solita ghost story: non abbraccia i topoi del genere horror virando verso il dramma famigliare e utilizza un punto di vista decisamente inusuale, ponendo lo spettatore nei panni del… fantasma.
Una presenza accoglie i nuovi inquilini della grande casa a due piani. Si tratta di una famiglia: Rebecca (Lucy Liu) è una donna in carriera, sempre con lo sguardo sul monitor del notebook, forse c’è poca complicità con suo marito Chris (Chris Sullivan) che, al contrario della moglie, si mostra molto apprensivo verso la figlia Chloe (Callina Liang), adolescente in lutto per la perdita della sua migliore amica Nadia, seconda vittima nella loro scuola, in poco tempo, di un’overdose mortale. Poi c’è Tyler (Eddy Maday), fratello maggiore di Chloe, promessa del nuoto, poco empatico verso la sorella e chiaramente il “figlio preferito” di mamma Rebecca. La “presenza” spia costantemente i suoi nuovi inquilini mostrando un interesse particolare verso Chloe, unica della famiglia che sembra essere in grado di percepirla.
Gli 85 minuti di durata di Presence sono tutti dal solo punto di vista della presenza. Il film, quindi, si apre con una soggettiva fluttuante dall’interno dell’abitazione e prosegue con blocchi di piani sequenza che osservano i personaggi, testimoniando la loro quotidianità.
Quello di Steven Soderbergh è chiaramente un esercizio di stile, anche perché il regista di Contagion e Black Bag non è nuovo a un’idea di cinema fortemente sperimentale e “tecnico”. Un modus operandi che si esprime tanto attraverso la scelta di un punto di vista inusuale, che condiziona fortemente la narrazione, quanto sulla strumentazione adottata, una leggerissima camera mirrorless full-frame montata su stabilizzatori utili a ottenere i movimenti fluidi e “fluttuanti”. Una scelta minimale che segue il trend già adottato in Unsane (2018) e High Flying Bird (2019), che invece erano stati girati con IPhone contenendo considerevolmente i costi. Infatti, Presence, come i film appena citati e altre “piccole” opere di Soderbergh come Bubble e The Girlfriend Experience è costato solo 2 milioni di dollari.
Un esercizio di stile che ha quasi l’identità di un esperimento mirato a rimescolare le carte della ghost story. Ma Presence è davvero una ghost story?
In apparenza potremmo dire di si, in fin dei conti ha molto in comune con Storia di un Fantasma di David Lowery, in cui lo spettro è un pacifico osservatore di vite, ma qualcosa condivide anche con Paranormal Activity, dove la casa infestata da una presenza (ben più inquietante e pericolosa) è lo spazio vitale dal quale si sviluppa in maniera documentaristica e voyeuristica l’intera narrazione.
In apparenza, però, perché questo (quasi) rivoluzionario POV potrebbe essere anche più allegorico che soprannaturale, andando, infatti, a coincidere con lo sguardo dello stesso spettatore, presenza impalpabile nelle storie che osserva e impotente a qualsiasi tipo di intervento. Il fantasma osserva e soffre la sua condizione di presenza che non lascia traccia, proprio come lo spettatore che vive i drammi dei personaggi senza poterli aiutare. È lo “sguardo impotente” del cinema più immersivo e riflessivo.
Per questo la Presenza sceglie Chloe, il personaggio più fragile della famiglia, l’unico che ha una storia interessante con la quale empatizzare, a cui appassionarsi e che poi rappresenterà il fulcro dell’esile sviluppo narrativo del film.
Ma se Presence è indubbiamente un oggetto interessante per il suo valore sperimentale, per come utilizza il mezzo per veicolare una narrazione originale, è anche vero che quello di Soderbergh è un film per addetti ai lavori, o al massimo per chi cerca dal cinema un valore che va oltre il quid et nunc della visione.
Se pensate di entrare in sala o spingere il pulsante play con l’obiettivo di avventurarvi in una storia dell’orrore, sappiate che rimarrete enormemente delusi. Presence, nonostante le premesse, non è un film horror, non ne ha il linguaggio, non mira neanche a creare la tensione nonostante una piccola svolta thriller. Macchina fluttuante, silenzi, pedinamenti e lunghissime sequenze in cui non succede letteralmente niente. Sappiate, inoltre, che la Presenza non è neanche minacciosa, ostile o dispettosa. È invisibile e silenziosa e l’unico momento in cui si manifesta violentemente mette solo sottosopra una stanza come il più innocuo dei poltergeist.
Quindi horror? Neanche a parlarle. Intrattenimento? Non è questo il titolo adatto a una serata birra e pop-corn. Però Presence non è mai noioso. Anche se per 85 minuti succede poco o nulla, lo sguardo passivo di Soderbergh e la scrittura documentativa di David Koepp sanno stranamente coinvolgere, a patto che non si abbiano aspettative “sbagliate”. Beh, si, perché davvero se pensate di guardare un altro genere di film o non siete quel tipo di spettatore in grado di assecondare la sperimentazione fine a se stessa, Presence potrebbe essere una gran brutta sorpresa!
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2024, Presence è arrivato nelle sale cinematografiche statunitensi a gennaio 2025, mentre in quelle italiane arriva addirittura il 24 luglio, anche se Lucky Red lo distribuisce in anteprima nei giorni del 23, 24 e 27 giugno.
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
|
|
Lascia un commento