Queer: la torrida Città del Messico di Luca Guadagnino. La recensione da Venezia81

Luca Guadagnino torna alla Mostra del Cinema di Venezia con l’adattamento di un romanzo breve di William S. Burroughs, Queer.

Siamo nel 1950. Lee (uno stropicciatissimo Daniel Craig, perfettamente in parte) passa le giornate e le serate nei locali gay di Città del Messico, alla ricerca di incontri occasionali. Del suo passato non ci viene svelato molto: intuiamo che si sia trasferito all’estero anche per vivere alla luce del sole la propria omosessualità. Il suo presente, invece, è un loop crepuscolare, decadente: l’uomo si aggira senza una direzione nel sottobosco della capitale messicana, in un passivo tourbillon di sesso e droga. Qualcosa in lui cambia all’incontro con Gene, un giovane enigmatico con cui inizia una frequentazione dapprima platonica.

Gene confonde l’altro con la sua ambiguità: nelle prime fasi del loro rapporto, Lee non riesce nemmeno a inquadrare il suo orientamento sessuale ed esita quindi nel tentare un approccio fisico. L’ossessione di Lee per Gene lo porterà a intraprendere una sorta di viaggio iniziatico, alla ricerca di una pianta in grado di spalancare le porte della percezione e permettergli di sperimentare una comunicazione telepatica con l’amante.

Tra i temi centrali del nuovo lavoro di Guadagnino, c’è la ricerca del sé, della propria identità e della propria comunità. A questo proposito è interessante notare come l’autofiction di Burroughs, scritta all’inizio degli anni ’50, venne pubblicata in un’epoca in cui il termine queer aveva ancora un’accezione totalmente negativa (nella prima traduzione italiana il titolo era stato tradotto come Checca). Lee “non si sente parte” del contesto ambientale da cui proviene (e da cui è stato probabilmente emarginato), come “non si sente parte” dell’ambiente omosessuale più vivace di Città del Messico: nella prima metà del film lo vediamo prendere le distanze dai modi di fare queer dei conoscenti nei locali. Io non sono come loro, si ripete. Questo senso di non appartenenza è il filo conduttore del suo viaggio, alla ricerca di qualcosa, o qualcuno, con cui trovare una sintonia totale – tragicamente impossibile, tragicamente desiderata.

Queer, formalmente ottimo, consegna allo spettatore un protagonista sfaccettato, e un setting altrettanto intrigante. Il climax – il culmine del viaggio iniziatico, che vede una fusione fisica tra i due innamorati – è visivamente indimenticabile. Si respira Burroughs e l’irrequietezza della beat generation, rinfrescata da un racconto moderno e punteggiata da una colonna sonora deliziosamente anacronistica, da Trent Reznor ai Nirvana.

Eppure, manca qualcosa. Nonostante l’interpretazione di Daniel Craig, la regia impeccabile e il climax visivamente forte, siamo lontani dalla potenza narrativa di un lavoro come Bones and All. Le aspettative, in questo caso, non hanno giocato a favore del film – che è stato sonoramente ignorato dai premi ufficiali dell’81ª Mostra del cinema e persino dai Queer Lion, in favore di Alma del Desierto (Soul of the Desert) di Mónica Taboada-Tapia, presentato nella sezione Giornate degli Autori.

Sara Boero

PRO CONTRO
  • La regia di Guadagnino e l’interpretazione di Daniel Craig.
  • La splendida scena della “fusione” tra i corpi dei due amanti, che si “accarezzano sottopelle”.
  • Una narrazione sfilacciata, anticlimatica sul finale.
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Valutazione: 6.5/10 (su un totale di 2 voti)
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