Rebel Moon Director’s cut, parte 1 e 2: una space opera tamarra ma non abbastanza!
Da qualche anno a questa parte, non si può quasi più nominare Zack Snyder senza aggiungere “director’s cut”: il regista di 300 infatti, come lo fu Leonardo Di Caprio prima di vincere l’agognato Oscar, si sta trasformando in un meme vivente per via delle versioni “alternative” (uncut o rimontate) dei suoi film, che saltano fuori non appena una pellicola da lui diretta non riscontra il successo sperato dalle case di produzione o il favore del pubblico. Snyder è in realtà una delle tante vittime della maledizione che grava sul DC Extended Universe, dato che le sue chilometriche versioni alternative sono cominciate nel lontano 2016 con Batman v Superman: Dawn of Justice e si sono propagate sino al recentissimo dittico Rebel Moon, di cui il 2 agosto è uscito su Netflix un immancabile Director’s cut.
Sapendo che il progetto iniziale era stato pensato come un ennesimo capitolo della saga di Star Wars e che per bagarre legali il regista è passato a Netflix, possiamo lasciarci alle spalle le polemiche sull’evidente somiglianza di alcune scene con la saga madre e giudicare Rebel Moon nel suo complesso.
I punti critici delle due pellicole che compongono la dilogia (Figlia del fuoco e La Sfregiatrice) di certo non consistono negli omaggi a I Sette Samurai, al genere western e alla space opera, ma nello svolgimento prevedibile e nella povertà della scrittura.
Figlia del fuoco ci catapulta su Vedt, una luna che gira attorno a qualche sconosciuto pianeta ai confini dell’universo; i suoi abitanti in pratica sono la versione “spaziale” di una comunità Amish, in cui vigono il duro lavoro e la gentilezza verso il prossimo. La misteriosa Kora (Sofia Boutella) è un nuovo membro di questa comunità, nessuno sa niente del suo passato e lei evita il più possibile di parlarne; in un giorno funesto atterrano sul satellite le truppe del Mondo Madre, cioè l’impero megagalattico che comanda l’Universo, capeggiate dal sadico Ammiraglio Noble (Ed Skrein). Costui sembrerebbe solo interessato a comprare del grano per le truppe ma in realtà è alla ricerca dei traditori che hanno venduto il frumento ai ribelli; in pochi minuti occupa il pianeta e assoggetta la popolazione con soprusi e punizioni esemplari, tanto che alla fine Kora è costretta a reagire e a rivelare la sua vera identità: ella infatti non è solo un ex ufficiale di Mondo Madre, ma soprattutto la figlia adottiva di Balisarius (Fraa Fee), colui che governa tutto dopo il terribile massacro della famiglia reale. La guerriera scappa dal pianeta assieme al contadino Gunnar (Michiel Huisman) e viaggia nell’universo per chiedere aiuto a quegli stessi ribelli ricercati da Noble.
In La Sfregiatrice i nostri protagonisti tornano su Vedt dopo aver riunito la propria ciurma di raminghi dal passato oscuro e organizzano la resistenza per l’attacco imminente dell’Ammiraglio. Come nelle pellicole precedenti, la Director’s cut fa il proprio dovere, aggiungendo preziosi minuti che ci consentono di avere un’idea più nitida della personalità dei protagonisti, ma non riesce a mettere una toppa sulle succitate carenze nella sceneggiatura.
Purtroppo, come accadde ad altri registi di culto, tipo il sempreverde Tim Burton, l’ingombrante nome del regista si trascina dietro una frotta di aspettative che sono molto difficili da tenere a bada, in questo caso poi, i detrattori di Snyder hanno dalla loro parte il fatto che tutta l’impalcatura narrativa delle pellicole è traballante, anche se fossero state girate da un regista alle prime armi. Il soggetto iniziale era, forse, perfetto per la casa di Topolino, in cui gli stilemi narrativi di Star Wars devono essere costantemente rinnovati ma al tempo stesso lasciare una sorta di “languorino” nello spettatore, in modo da indurlo a consumare tutte le serie, film e spin off disponibili sul catalogo. Rebel Moon è invece un tentativo (poco) furbetto di iniziare una nuova saga fantascientifica, che possa creare un media franchise più adatto ai gusti mainstream; vediamo infatti che l’occhio del regista indulge in quei dettagli che lo hanno reso celebre: i combattimenti splatter, i toni caldi, la definizione “fumettosa” e i muscoli guizzanti.
Già con The Witcher Netflix ha cercato di aprire una nuova via, più grimdark, nel mondo del fantasy, in modo da cavalcare il successo de Il Trono di Spade; in questo caso ne ha addirittura rapito alcuni fra gli interpreti più affascinanti (Michiel Huisman, Ed Skrein, Staz Nair) e li ha riutilizzati per cominciare un nuovo filone fantascientifico dalle tinte più truci.
Rebel Moon è in realtà un’opera che ha delle discrete potenzialità perché, se la produzione desse carta bianca a Snyder, potrebbe diventare un prodotto di consumo di discreto successo: 300 resta tutt’oggi iconico per la sua sbandierata tamarraggine, in un’epoca in cui la tipica altezzosità dei peplum stava diventando fastidiosa, e questa dilogia potrebbe quindi trasformarsi in una deliziosa “cafonata spaziale”.
Snyder dovrebbe quindi regalare una bella vacanza ai suoi cosceneggiatori (Kurt Johnstad e Shay Hatten) e ingaggiare qualche nerd cazzuto che possa ulteriormente allungare la trama, levare gli spiegoni, magari far scambiare ai personaggi qualche parola di più e, perché no, aggiungere quel tocco di umorismo becero che andava di moda negli action anni ’80. Per adesso di “esagerato” c’è solo l’uso di effetti speciali e l’impegno del cast, che cerca di coprire i buchi di trama con una recitazione convincente e una figaggine ancor più convincente (gli addominali di Staz Nair devono aver ricevuto un cachet a parte).
Dopo il cliffhanger finale, dunque, attendiamo un terzo capitolo (attualmente non certo) e speriamo in significativi miglioramenti.
Ilaria Condemi de Felice
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