The Apprentice – Alle origini di Trump, la recensione

The Apprentice è il titolo di un reality show americano che ha esordito nel 2004 su NBC ed è proseguito per ben quindici stagioni, arrivando anche in Italia quasi dieci anni dopo con la partecipazione di Flavio Briatore. Ma all’origine di questo programma televisivo c’è niente meno che l’ex-Presidente USA Donald J. Trump, co-produttore e ospite fisso con l’obiettivo di formare in un gioco competitivo a eliminazione gli imprenditori di domani. E The Apprentice è anche il titolo del terzo lungometraggio di Ali Abbasi, regista e sceneggiatore danese ma di origini iraniane che ribalta la prospettiva del reality della Trump Productions: nel film è un giovane Donald Trump a fare da “apprendista” nello spietato mondo dell’imprenditoria statunitense!
Siamo negli anni ’70 e Donald Trump è un giovane di buone speranze che sta portando avanti, sull’orma del padre, un progetto edilizio a New York. Ma sarà l’incontro con l’avvocato Roy Cohn a cambiare la vita per sempre all’imprenditore: frequentando l’uomo che ha mandato alla sedia elettrica Julius ed Ethel Rosenberg, nonché uno dei fautori del maccartismo, Trump imparerà a muoversi in un ambiente colmo di “squali”, seguendo e applicando le tre semplice regole del “maestro”: attaccare per primo il telefono, negare tutto, non ammettere mai una sconfitta.
E, come ben sappiamo a distanza di molti decenni, Donald Trump la lezione l’ha imparata molto bene arrivando a superare Cohn per voracità e cinismo. Ma il film non arriva di certo fino ad oggi e alla carica presidenziale, fermandosi agli anni ’90, quando il ruolo di Trump era ancora legato al mercato edilizio.
E qui risiede il vero asso di The Apprentice: raccontare l’ascesa al potere di Trump senza arrivare a mostrare la caduta (ancora oggi in discussione), focalizzandosi sul crescente cinismo, sull’imbarbarimento del borghese rampante, sull’agghiacciante mors tua vita mea sul quale si è costruita la carriera del futuro 45° Presidente degli Stati Uniti. E la riuscita di questa visione è confermata dalle dichiarazioni del vero Donald Trump alla visione dell’opera: “Un film falso e privo di classe – ha dichiarato recentemente sui social il candidato alla Casa Bianca – un colpo basso, diffamatorio, politicamente disgustoso”, augurandosi un risultato disastroso al box office e definendo l’operazione come un modo meschino per provare a infliggere un colpo al suo movimento politico, a pochi giorni dall’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti.
In pratica, Abbasi – che su X ha chiesto a Trump un confronto ringraziandolo della pubblicità gratuita che sta facendo al suo film – non fatto altro che proseguire la sua narrazione di ideali “mostri”, pur affrontando The Apprentice in maniera estremamente diversa, quasi opposta sia a Border che a Holy Spider, che i mostri li rappresentavano in maniera molto più esplicita, anche fisica.
L’ottima sceneggiatura di Gabriel Sherman (che in passato ha scritto il “discutibile” Independence Day: Rigenerazione) ci introduce morbidamente un Donald Trump che sta cercando il suo posto nel mondo e, sopraffatto dall’ingombrante figura paterna, deve affrontare le difficoltà di un fratello borderline e andare a riscuotere personalmente gli affitti da sgradevoli inquilini morosi; inoltre si affacciano all’orizzonte grattacapi legali a causa della scelta – neanche troppo sottilmente razzista – di vietare gli affitti agli afroamericani nelle palazzine Trump. In maniera quasi subliminale, sugli schermi televisivi compaiono le immagini di Richard Nixon che assicura gli elettori della sua buona condotta e onestà, poco prima che scoppiasse lo scandalo Watergate che lo porterà fuori dalla Casa Bianca, e poco dopo conosciamo anche un Trump sempre più determinato, grazie alla frequentazione con Cohn, che fa la corte alla bella Ivana nonostante lei sia a pochi giorni dal matrimonio.
The Apprentice ci mostra, quindi, l’origin story di un villain anche se Abbasi, intelligentemente, non prende mai in maniera spudorata una posizione, non avrebbe neanche bisogno di farlo considerando l’arco narrativo che la storia occupa. Ma semina segnali durante tutto il percorso di crescita professionale e morale che il suo personaggio compie, arrivando all’apice quando sceglie di rinnegare il suo “maestro” proprio nel momento di massimo bisogno.
E quel che colpisce maggiormente in The Apprentice è proprio quel “maestro”, il viscido e arrivista Roy Cohn che nasconde dietro una fermezza di carattere e grande sicurezza una fragilità che si manifesta tutta nella seconda parte del film. A dar volto a Roy Cohn c’è il magnifico Jeremy Strong della serie Succession che ruba la scena più volte al protagonista interpretato da un convincentissimo Sebastian Stan. Così su due piedi, è difficile pensare al “Soldato d’Inverno” come interprete di Donald Trump eppure Stan, lavorando su gesti, espressioni, tic, riesce a creare una mimesi perfetta con il reale Trump senza neanche il bisogno di un trucco ingombrante: praticamente lo spettatore si convince di trovarsi davanti il rampante imprenditore della Grande Mela fin da subito. Va assolutamente segnalata anche l’ottima performance di Maria Bakalova nella parte di Ivana, perfettamente in character e con uno spazio decisamente determinante nella narrazione dell’uomo che le ha rubato il cuore.
Il look che Abbasi sceglie per il suo film è curiosamente vicino a quello di un film tv degli anni ’80, cosa che inizialmente può lasciare basiti, ma più si prosegue con la visione più si capisce che questa decisione porta a una sovrapposizione perfetta al periodo che si sta raccontando. E così ogni elemento di quello che vediamo sullo schermo, dai costumi, al trucco, alla fotografia, rievoca perfettamente gli anni ‘70 e ‘80 a tal punto che The Apprentice sembra effettivamente essere stato realizzato in quel periodo.
Non c’è la ferocia disturbante di Holy Spider ne la fantasia grottesca di Border, ma The Apprentice cattura lo spirito del tempo (presente e passato) come pochi altri film sono riusciti a fare negli ultimi anni, restituendo un ritratto ambiguo e inquietante dell’American Dream. E Abbasi conferma di essere uno dei talenti più interessanti attualmente sul mercato cinematografico.
Roberto Giacomelli
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