The Bikeriders, la recensione

Anche se oggi si tende a ricondurre l’argomento dei bikers cinematografici a un unico titolo, il bellissimo Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, tra gli anni ’60 e ’70 era esplosa una tendenza che individuava nei motociclisti ribelli e nei club illegali di motociclisti un tema ricorrente, tanto da creare un vero e proprio filone cinematografico, quello dei biker-movies. Sicuramente si deve l’inizio di tutto a Il selvaggio (1953) di Laslo Benedek con Marlon Brando, mentre all’iconico Easy Rider spetta l’ideale fine di un’epoca impressa su pellicola; ma nel mezzo di questi tre lustri ci sono stati tanti di quei film, soprattutto in ottica exploitativa, da riempire numerosissimi posteggi di drive-in. Sanguinose risse, motori rombanti, duelli all’ultimo sangue, e bellissime ragazze pronte a tutto per conquistare un posto sulla sella del chopper del centauro bello e dannato. Dall’imprescindibile I selvaggi (1966) di Roger Corman fino a irresistibili “contaminazioni” come La notte dei demoni – Werewolves on Wheels (1971) di Michel Levesque, passando per Angeli dell’inferno sulle ruote (1967) di Richard Rush, Facce senza Dio (1967) di Daniel Haller, She-Devils on Wheels (1968) di Herschell Gordon Lewis, Satan’s Sadist (1969) di Al Adamson e L’angelo scatenato (1970) di Lee Madden.

Testimonianze di un’epoca che probabilmente mai più tornerà e di una cultura che, seppur mutata, ancora oggi esiste e persiste, come testimoniano serie di successo come Sons of Anarchy e film che ancora oggi ci raccontano il mito del biker, come accade in The Bikeriders di Jeff Nichols, nei cinema dal 19 giugno 2024 con Universal Pictures.

Siamo negli anni ’60 a Chicago e il fotoreporter Danny Lyon sta raccogliendo materiale per un reportage sulla cultura dei bikers. Sul suo cammino incontra i Vandals, un moto-club fondato e capitanato dal rude Johnny, ma si concentra soprattutto su Kathy, che ha sposato il ribelle Benny, pupillo di Johnny, abbracciando completamente la filosofia dei bikers. Attraverso sessioni di interviste a Kathy, scopriamo le vite dei Vandals e come l’ambiente dei bikers sia profondamente mutato nel corso degli anni.

Ispirandosi molto liberamente all’omonimo libro fotografico di Danny Lyon, Jeff Nichols con The Bikeriders vuole offrire allo spettatore il ritratto di un’epoca che oggi vive attraverso i ricordi e le testimonianze di chi quell’epoca l’ha vissuta e che ha preziosi spunti nei documenti storici come quelli a cui si ispira. Per far questo, l’autore identifica un mito ben preciso, quello del biker, e ci si focalizza totalmente per restituire un’immagine genuina – ma anche un po’ idealizzata – di quel simbolo di libertà e rottura degli schemi precostruiti che ha toccato gli anni Sessanta americani.

Pur utilizzando lo stesso titolo dell’opera di Lyon e inserendo lo stesso fotoreporter nella storia del film, facendolo spesso coincidere con l’occhio dello spettatore, Nichols però non racconta gli Outlaws dell’Illinois come nella ricerca di Lyon, ma immagina il moto-club dei Vandals inquadrandolo negli ultimi anni in cui la cultura biker poteva essere considerata genuina. Quell’ideale anarchico di ribellione e di contrasto alle regole ha, infatti, trovato sul finire del decennio un repentino mutamento in semplice criminalità. Il diffondersi delle droghe pesanti ha iniziato a mietere numerose vittime tra i biker, che hanno cominciato a macchiarsi sempre più frequentemente di reati, fino a trasformarsi da fuori legge a veri e propri criminali. Perché, in fin dei conti, c’era una filosofia a muovere i Vandals che davvero nulla aveva a che fare con il furto e l’omicidio, tantomeno lo spaccio e lo stupro, reati che invece andranno a caratterizzare la generazione successiva di bikers, quella post-sessantottina.

In questo contesto, Nichols ci racconta le vite di un gruppo di motociclisti soffermandosi su Kathy, interpretata da Jodie Comer, che per amore ha abbracciato un “credo” a lei lontanissimo. In realtà non emerge benissimo il rapporto sentimentale che c’è tra la ragazza e il bel tenebroso Benny, interpretato da Austin Butler: lei si immola completamente alla causa, ma lui è palesemente distaccato dal matrimonio. Lei prova timidamente a cambiarlo, lui non ci sta e prosegue coerentemente per la sua strada. E infatti a Nichols non interessa raccontare la storia d’amore tra Kathy e Benny, è più interessato alla descrizione antropologica dell’ambiente, con riti d’iniziazione, prove di fiducia, tradimenti e faide. Così ad emergere e affascinare più di chiunque altro è il personaggio di Johnny, che ha la carismatica faccia da schiaffi di Tom Hardy. Il leader dei Vandals è quasi una figura paterna per Benny, eppure Kathy vede proprio in lui un avversario, la ragione unica per la quale suo marito non si comporta come un marito. Il triangolo che ne emerge è il tentativo di declinare con sentimenti umani un ritratto forse troppo chirurgico del fenomeno che si sta raccontando, un modo per aggiungere calore e intimità allo sguardo disincantato dell’autore su un argomento che palesemente lo affascina, gli interessa. E infatti, stando, alle cronache produttive, è dal 2013 che Jeff Nichols sta tentando di raccontare questa storia, che ha preso forma realmente come The Bikeriders solo nel 2022.

Avvalendosi di un cast di comprimari di tutto rispetto che rispondono ai nomi di Michael Shannon, Mike Faist, Norman Reedus, Beau Knapp e Boyd Holbrook, The Bikeriders è sicuramente un omaggio alla grande stagione dei biker-movies ma si distacca molto da quel tipo di cinema d’exploitation e, seppur non manchi la violenza e un paio di momenti che strizzano l’occhio al b-movie, quella di Jeff Nichols è una rigorosa analisi del fenomeno dei bikers inquadrato nel momento più vicino al suo declino.

Un gran bel film, molto rigoroso, che pecca forse nella mancanza di quel coinvolgimento emozionale che solitamente si chiede e ci si aspetta dai grandi film di Hollywood.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Uno sguardo realistico – con un pizzico di nostalgia – sul fenomeno dei bikers.
  • Un grande cast con un magnifico Tom Hardy in cima alla lista.
  • Non si lascia corrompere dalle mode di Hollywood.
  • Gli manca un po’ di quota emozionale per coinvolgere al meglio lo spettatore.
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