The Brutalist: Brady Corbet e il trauma dell’Artista. La recensione da Venezia81
Nella Pennsylvania del secondo dopoguerra, l’architetto ebreo Lázló Tóth (Adrian Brody) cerca di ricostruirsi una vita negli Stati Uniti, affrontando la fame e la povertà, fino all’incontro con l’imprenditore Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che diventerà il suo mecenate e gli affiderà la progettazione di un’opera sensazionale.
Presentato in concorso all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Leone d’argento alla regia, The Brutalist è firmato dal regista Brady Corbet, già alla seconda apparizione veneziana dopo che nel 2015 il suo The Childhood of a Leader figurava in concorso nella sezione Orizzonti.
I due film, oltre alla Mostra del cinema di Venezia, condividono la struttura in tre atti, che insieme alla durata importante -ben 215 minuti-, presenza di overture, un intervallo a metà della proiezione di 15 minuti -integrato nello stesso minutaggio del film-, ed epilogo, rendono The Brutalist un film che trasuda ambizione. Ha richiesto sette anni di lavoro, per stessa dichiarazione del regista, che lo ha creato come un’opera di altri tempi e girato in VistaVision (formato sviluppato negli anni Cinquanta dalla Paramount), scelta dettata dalla volontà di proporre una qualità dell’immagine più vicina a quella dell’epoca in cui la vicenda è ambientata.
La storia di Lázló, figlio della Bauhaus di Gropius, sopravvissuto alle persecuzioni della guerra e arrivato negli Stati Uniti solo e privo di denaro, è una storia “inventata”, nella forma ma non nella sostanza. The Brutalist, infatti, è un film dedicato a tutti gli artisti -vittime della guerra- che non sono riusciti a realizzarsi, a tutti coloro che sono arrivati in America senza nulla, con la volontà di ricostruirsi una vita, e si sono dovuti scontrare con la miseria, il disgusto, la crudeltà umana in tutte le sue forme… soprattutto quelle ammantate di buone intenzioni.
Lázló Tóth non è un uomo facile, come tutti gli artisti è una creatura dalla forte personalità, segnata da una vita crudele e da scelte difficili che, di fronte all’amore per il suo lavoro e la sua opera, non riesce a vedere -quasi- più nulla e a farne le spese, come spesso accade, è la sua stessa famiglia. Adrien Brody sente il personaggio (e noi guardandolo abbiamo un forte riverbero de Il Pianista di Polanski), che precipita dal patetismo degli oscuri pozzi di dipendenza dall’oppio, agli scatti d’ira più repentini e feroci, nel tentativo di proteggere l’integrità della sua anima, rappresentata dalla sua opera.
La possibilità di riscatto e di continuare e fare la propria arte, inevitabilmente segnata dall’esperienza di guerra e dell’Olocausto, è come il canto di una splendida sirena nella nebbia, una sirena che ha le sembianze di Harrison Lee Van Buren, impresario ricco e arrogante, che vede qualcosa nell’opera di Tóth e ne rimane stregato. Ma le leggende ci insegnano a non fidarci delle sirene e quella che per Lázló sembra finalmente l’occasione di riscatto, diventa invece l’ennesima spirale di abusi.
L’unico problema di The Brutalist è che mette troppa carne al fuoco, nonostante il ritmo lento e la durata che consentirebbe lo spazio giusto per dire tutto quello che serve, la sensazione alla fine è che ci sia qualcosa di troppo e poco spazio per rielaborarlo.
La bellezza di alcune immagini, soprattutto nel finale (spettacolare la ripresa di una cava di marmo nella seconda parte del film), colpisce, ma non sembra sufficiente a giustificare la scelta di un mezzo tecnico così particolare. Manca un po’ di “epica”, un respiro più ampio e quello che rimane è la sensazione di un’opera ancora acerba, per quanto grandiosa, dove la preoccupazione di spiegare rischia di lasciare poco spazio all’interpretare.
Al netto di pregi e limiti, The Brutalist resta uno dei titoli più significativi -e poco valorizzati- presentati in questa edizione del festival e sicuramente ne sentiremo parlare ancora nei prossimi mesi, così come bisognerà tenere d’occhio da vicino in futuro di Brady Corbet, che potrebbe rivelarsi uno degli autori più interessanti della sua generazione.
Un film da rivedere, perché una visione non può bastare per comprenderlo appieno.
Susanna Norbiato
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