The Substance, la recensione del body horror estremo di Coralie Fargeat
Stiamo vivendo un momento storico davvero favorevole per il cinema horror perché possiamo notare una varietà (unita anche a un’indubbia qualità) che forse non si vedeva in giro dal ventennio d’oro 70-80 dello scorso secolo, quando al cinema potevi trovare in cartellone sia prodotti di genere di puro entertainment che altri più ambiziosi, capaci di portare avanti un discorso politico e sociale. E stiamo anche assistendo alla nascita artistica e l’affermazione di giovani autori di talento capaci di condurre un percorso coerente e, probabilmente, di diventare di tendenza per il futuro. In questo felice scenario possiamo scorgere anche la francese Coralie Fargeat che nel 2017 aveva esordito con il feroce rape & revege intitolato, appunto, Revenge e ora torna al cinema con un horror fanta-grottesco che è riuscito ad aggiudicarsi la palma alla miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes. Parliamo di The Substance, che in Italia arriverà nei cinema dal 30 ottobre grazie a I Wonder Pictures dopo essere stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e al Triste Science + Fiction Festival.
Superati i cinquant’anni, la ex diva del cinema Elizabeth Sparkle viene licenziata dal programma televisivo di fitness che conduce da molto tempo. Il produttore Harvey, infatti, cerca una donna più giovane e attraente per sostituirla e a poco serve un Oscar e una stella sulla Hall of Fame, perché Elizabeth rischia davvero di non lavorare più. Arriva salvifica la proposta a Elizabeth di partecipare a un protocollo medico sperimentale ancora riservatissimo che le consentirebbe di avere una versione di sé più giovane e bella: è grazie alla Sostanza, un misterioso siero giallo che le viene recapitato in anonimato in un locker insieme a un kit di attivazione e mantenimento, che la donna può letteralmente sdoppiarsi. A settimane alterne è Sue, una sé ventenne, bellissima e determinata, ma dopo sette giorni deve tassativamente tornare ad essere Elizabeth e lo sconfinamento può causarle danni irreversibili.
C’era una volta il divismo e tutta quella società di plastica fondata sull’apparire. C’era una volta e c’è ancora, sempre più maniacale, estrema e tormentata. Perché a Hollywood – ma in egual misura anche in altri settori dello spettacolo, sia geograficamente che tematicamente parlando – quando la pelle comincia a calare, le rughe fanno capolino e i capelli si ingrigiscono, soprattutto se si è donna, si è tagliati fuori. È una realtà molto triste e spietata che solo negli ultimissimi anni sta apparentemente trovando una soluzione con un riciclo costruttivo dei ruoli, ma che, nei fatti, tende ancora a ghettizzare molte professioniste che hanno basato la propria fortuna sull’aspetto fisico.
Da qui si sviluppa la fortuna delle industrie farmaceutiche specializzate, dei chirurghi che spesso e volentieri passano sopra ogni umana morale per assecondare la visione appannata e irrealistica di chi era, non è più e vorrebbe tornare ad essere, nonché di chi è e, in maniera ancora più dannosa, vuole stravolgere il proprio aspetto inseguendo gli ideali distorti dei ‘filtri’ delle app. E capiamo che 9 volte su 10 tutto ciò accade a causa della pressione sociale, di un ideale di perfezione millantato per assecondare la percezione che la società ha della bellezza. E sempre 9 di quelle volte si parla di standard di bellezza femminile, assorbito e restituito dalla visione maschile per vendere subito e meglio l’immagine della donna, sia a uomini che ad altre donne; e queste ultime, a loro volta, dovranno inseguire quello stesso standard. Un loop contorto che porta alla negazione naturale della trasformazione corporea portando a una società aliena e strutturalmente figlia di modificazioni artificiali.
La stiamo facendo drastica? A parole può darsi, ma questa è materia ghiotta per la narrativa fantastica che può maneggiarla per farne un magnifico e terrificante specchio della nostra realtà, di quella società vanesia dell’apparire che davanti a quello specchio ci vive e fonda ogni aspetto della propria esistenza sull’apparenza. E Coralie Fargeat coglie la palla al balzo per raccontare con una cifra orrorifica esageratissima e grottesca la toccante e tristissima storia di una stella che non riesce più a brillare di luce propria. In fin dei conti la nostra Elizabeth, interpretata da una magnifica e davvero coraggiosa Demi Moore, non si chiama Sparkle di cognome? E in suo aiuto giunge la “Sostanza”, elisir della (quasi) eterna giovinezza che può dare tante gioie quanti maggiori dolori, se non maneggiata con cura.
Con uno sguardo femminile che coglie lucidamente quel che si innesca nella mente di una bellezza che non si riconosce più e vede gli altri non accettarla, Coralie Fargeat costruisce una storia “a la Black Mirror” (ma, visti i riferimenti classici, potremmo dire a la The Twilight Zone) che è una lunga, progressiva e dolorosissima discesa all’Inferno.
Grazie a uno stile registico molto stilizzato che cerca l’evoluzione di macchina (e quindi di sguardo), la Fargeat abbandona presto qualsiasi pretesa di realismo che non sia quella alla fonte della sua narrazione critico/satirica e porta The Substance all’eccesso, visivo e narrativo. Ad un certo punto, la logica (se non quella interna al meccanismo del film) e il realismo vengono completamente soppiantati da una virata verso il grottesco, il surreale con abbondanti dosi di splatter e disgusto.
Coralie Fargeat fa quello che David Cronenberg avrebbe fatto negli anni ’80 ma con una visione molto più pop, compiaciuta e post-moderna. The Substance è un body-horror concettualmente serissimo e spaventoso, ma con un abito divertito e divertente che ramifica perfino una serie di citazioni cinefile (e non solo) tanto gratuite quanto irresistibili. Dentro The Substance ci sono Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, che sono sicuramente le prime reference della regista e sceneggiatrice, ma a quelli si innestano richiami a Kubrick (Shining e 2001: Odissea nello spazio) e Hitchcock (c’è il tema de La donna che visse due volte), Lynch (Elephant Man), De Palma (Carrie) e Aldrich (Che fine ha fatto Baby Jane?), fino agli eccessi splatter di Yuzna (The Society) e del body-horror nipponico più estremo di inizio anni 2000.
Come è facile immaginare, The Substance si concentra tantissimo sul corpo femminile che viene sessualizzato quando lo sguardo coincide con quello del produttore televisivo interpretato da Dennis Quaid (che si chiama Harvey come il più famigerato dei fratelli Weinstein) oppure mostrato in tutto il suo perverso fascino decadente quanto coincide con quello di Elizabeth. E Demi Moore si mette tantissimo in gioco considerando che c’è molto di autobiografico nel personaggio che interpreta e si lascia vedere per quello che realmente è, completamente senza veli, con tutte le “imperfezioni” dell’età. Di contro c’è Sue, bella, giovane, energetica ed esuberante che ha la fisicità atletica di Margaret Qualley (con effetto prostetico sul seno nudo per farla sembrare più prosperosa). Sue è l’idealizzazione contemporanea di Elizabeth, non il suo clone giovane, ma come la “matrice” vorrebbe essere oggi e quello che il vorace sguardo maschile desidera.
Visto che abbiamo a che fare con un body-horror, lo sviluppo della vicenda prende una via decisamente disgustosa in cui il corpo viene mutato, stravolto, avvilito e distrutto in un delirio di effetti speciali magnificamente vecchio stile che metteranno a dura prova lo spettatore più sensibile.
A conti fatti, The Substance è un film sorprendente che racchiude l’essenza di quello che oggi possiamo considerare cinema horror di qualità: ha una visione d’autore molto forte, avvalorata dal fatto che la sensibilità femminile è particolarmente adatta a raccontare i temi che la storia sviluppa; allo stesso tempo parliamo di un film di forte intrattenimento, ricco di riferimenti alla cultura pop e che sviscera in maniera critica la società dello spettacolo fondata sull’apparire. Prendete, però, in considerazione che l’aspetto grottesco è molto ingombrante e, ad un certo punto, è meglio non cercare troppe spiegazioni logiche a quello che state vedendo perché il delirio allucinatorio che porta in scena abbandona ogni parvenza di realismo.
Roberto Giacomelli
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