Tulsa King: lo spaghetti western in salsa Soprano

Non è un mistero che Taylor Sheridan (Sicario, Soldado) abbia il sogno di riportare in auge il genere western; dopo notevoli lavori, il suo Yellowstone – con un Kevin Costner che non ha alcuna intenzione di uscire dal tunnel di Balla coi lupi – sta cominciando a raggranellare consensi, tanto che Paramount+ gli ha dato carta bianca per la scrittura di un’altra serie tv ambientata nel cuore degli USA, a patto che qualcosa cambiasse. Infatti, grazie ai costanti feedback delle piattaforme, le case di produzione hanno inteso che cowboy e rotolanti balle di fieno non vendono più come un tempo, principalmente perché adottano toni narrativi troppo “solenni” per un pubblico con la soglia di attenzione in caduta libera. I film sui gangster, invece, mantengono il loro fascino “scoppiettante”, ed è grazie alla loro influenza nella cultura contemporanea che nel 2022 è uscita la prima stagione di Tulsa King con un protagonista che è stato “l’Over the top” dei migliori action movie.

Dopo venticinque anni, il malavitoso Dwight Manfredi (Sylvester Stallone) esce di galera; tornato alla base, attende la ricompensa per la sua fedeltà (si è preso la colpa di un omicidio) ma le cose non sono più come un tempo: il suo amico di sempre e capo della famiglia, Pete Invernizzi (A.C. Paterson), ha il cancro e ha lasciato il potere al figlio Chickie (Domenick Lombardozzi). A Dwight, soprannominato “Il Generale” o “Cinque Stelle”, viene proposto di “fare il pioniere” nell’Ovest e conquistare Tulsa, in Oklahoma; al vecchio galantuomo questa “promozione” a capo sembra più un esilio ma dopo tante proteste e un bel gancio destro a uno dei capi, capisce che è ora di cambiare aria.

Arrivato a Tulsa, impiega, letteralmente, dieci minuti a mettere le mani sulla prima attività che incontra e a farsi nuovi amici, e amiche.

Nel corso delle nove puntate della prima stagione l’ascesa dell’attempato “Five Stars” tra i provinciali dell’Oklahoma non sarà facile come previsto, poiché oltre ai nuovi nemici che si è fatto nella sua stessa famiglia mafiosa, deve combattere con le bande criminali locali e soprattutto curare le ferite del passato, come il rapporto con la figlia Tina (Tatiana Zappardino).

Tulsa King ha una storyline molto elementare ma risulta godibilissimo per la veracità dei personaggi e i dialoghi briosi: Dwight è un gioviale mascalzone che prima ti obbliga a pagare il pizzo e poi ti insegna a triplicare le vendite, condisce minacce con battute e dispensa galanterie a tutte le signore che incontra. Da bravo leader vede le potenzialità di ciascuno e recluta soggetti davvero poco convenzionali rispetto ai soliti affiliati che vediamo nei mafia movies: Bodhi (Martin Starr) è un fricchettone nerd, Armand (Max Casella) un ex picciotto divenuto stalliere, Mitch (Garrett Hedlund) un barista dal grilletto facile e Tyson (Jay Will) un giovincello di bieche speranze.

Quella del nostro protagonista è in realtà una storia di rinascita, da bravo self made man della Grande Mela, irrompe nelle vite annoiate di pacifici uomini di provincia e dà loro una seconda opportunità per riscattarsi. Come per tutti i crime, c’è il rischio che lo spettatore, specie quello più giovane, rimanga un po’ troppo affascinato da queste simpatiche canaglie e cerchi di emularle, ma gli sceneggiatori hanno dotato ciascun personaggio di un codice morale molto rigido, tanto che si finisce per considerarli i “meno peggio” rispetto ai poliziotti corrotti e gli spietati boss locali.

Tirando le somme: i critici più accaniti potrebbero affermare che Tulsa King sia una serie poco originale che fa leva sull’onnipresente “Spirito Revival” degli ultimi dieci anni, ma un pubblico più attento potrebbe invece far notare che la serie semplicemente, niente di più e niente di meno, cerca di ispirarsi ai grandi successi del passato e offra al grande pubblico un semplice prodotto di conforto che, magari, non arricchisca lo spirito ma semplicemente ricalchi dei canoni che siano “sempre-verdi”. Ordunque, in questo periodo storico in cui le serie tv sono prese fin troppo sul serio e non si può più -o quasi- dopo una dura giornata, sorridere davanti alle politically uncorrect scazzottate di Walker Texas Rangers Chuck Norris, sei un dio! –  ecco che invece Paramount+ ci offre un’opera agevole, che in un passato non troppo lontano, e meno pretenzioso, avrebbe potuto raccogliere un discreto numero di consensi, anche solo puntando sulle atmosfere di provincia e sulle ambientazioni sperdute.

Quindi, Tulsa King è uno dei tanti contenuti che sembrano “furbetti” ma che semplicemente rispecchiano i desideri del pubblico, a cominciare dalla presenza di quell’icona che è Sylvester Stallone. Non occorre vergognarsi dal dire che è proprio lui – colui che dopo quasi cinquant’anni rilancia franchise quali quelli di Rocky e Rambo – che regge sulle proprie, muscolose, spalle, tutto lo show. Il vecchio Sly, dopo quel fenomeno che è stato The Expendables, ha deciso di rimettersi in pista e far vedere alla generazione Z cosa si siano persi con l’avvento delle piattaforme. Il suo Dwight Manfredi è un gentiluomo di 75 anni che quanto a fascino non fa prigionieri; tutti quelli che gli gravitano attorno sono delle simpatiche sagome che gli offrono delle occasioni per dimostrare la propria mascolinità da uomo di altri tempi.

Dal 15 settembre su Paramount+ sono disponibili i primi episodi della seconda stagione, evento che occorre tenere d’occhio per poi potersi gloriare di essere stati fra i primi di aver notato quella perla, un po’ gangster e un po’ trash, che è Tulsa King.

Ilaria Condemi de Felice

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