A Complete Unknown, la recensione

New York, 1961. A bordo di un taxi, con qualche indumento sgualcito e una chitarra ben stretta tra le mani, giunge in città un giovane che è destinato a cambiare per sempre le sorti della musica folk. È Robert Zimmerman, un nome ormai abbandonato nel passato per lasciare posto al ben più evocativo pseudonimo Bob Dylan.
Il ragazzo, un chitarrista appena ventenne che nessuno ha mai sentito nominare, giunge in città per recarsi al capezzale di Woody Guthrie, uno dei più importanti cantautori della scena folk ormai rinchiuso in un ospedale psichiatrico a causa di una grave malattia neurodegenerativa.
Recatosi da Guthrie per una convenzionale visita “da fan”, il giovane Dylan conosce proprio in questa cornice l’altra grande voce della scena folk americana: Pete Seeger. Sentendolo suonare e cogliendo immediatamente la poesia insita nelle note dei suoi arrangiamenti, Pete decide di prendere sotto la sua ala protettiva il giovane Bob Dylan: lo fa esibire nei piccoli locali in cui si suona musica folk dal vivo, lo porta sul prestigioso palcoscenico del Newport Folk Festival e lo fa diventare amico e collega di Joan Beaz.
In brevissimo tempo la carriera di Bob Dylan si accende e il ragazzo, da completo sconosciuto quale era, diventa nel giro di quattro anni un divo assoluto della scena musicale ma anche un ribelle che porterà il folk verso orizzonti non sempre ben accolti.
Negli ultimi anni James Mangold ha deciso di assumersi rischi decisamente importanti. Si, perché nel giro di sette anni si è preso la responsabilità di mettere la parola fine (anche se poi non sarà così) al racconto di uno dei personaggi più amati nell’universo dei cinecomics (Logan: The Wolverine), ha messo “in panchina” Steven Spielberg per dirigere al suo posto il capitolo conclusivo di uno dei più importanti eroi della settima arte (Indiana Jones e il quadrante del destino) e adesso si sporca le mani realizzando un biopic su una delle più grandi leggende del panorama musicale americano: Bob Dylan.
E quest’ultima scelta ha senz’altro dell’interessante perché, in un modo quasi del tutto inaspettato, sembra quasi che Mangold abbia deciso un po’ in silenzio di realizzare il suo personalissimo multiverse (per utilizzare una parola che in questi anni va molto di moda) dedicato agli eroi della musica folk statunitense e così, dopo aver diretto nell’ormai lontano 2005 Walk the Line – Quando l’amore brucia l’anima, ovvero l’apprezzabile ma un po’ dimenticato biopic su Johnny Cash interpretato da Joaquin Phoenix e Reese Whiterspoon, adesso è la volta di aprire un racconto su Bob Dylan, ovvero un cantautore che si è ispirato alla musica di Cash (e che di Cash è stato amico) per poi portare la melodia folk verso un’evoluzione importante che inizialmente ha fatto fatica ad essere compresa.
Annunciato nel 2020 e accompagnato da una produzione abbastanza lunga e complessa che ha coinvolto come consulente lo stesso cantautore, arriva finalmente in sala A Complete Unknown, che vede come stella indiscussa della scena Timothée Chalamet. Un divo che, po’ come quel Bob Dylan qui chiamato ad interpretare, dopo essere stato scoperto da Luca Guadagnino in Chiamami col tuo nome è riuscito a prendersi Hollywood nel giro di pochissimi anni diventando uno dei nomi più richiesti dell’attuale star-system.
Autore di brani indimenticabili, nati da un certo bisogno di contestare la scena socio-politica dell’epoca ma poi diventati parte integrante della cultura di massa, tra i quali possiamo citare Blowin’ in the Wind, The Times They Are A-Changin’, Mr. Tambourine Man e Like a Rolling Stone, Bob Dylan è stato l’indiscusso protagonista di un cambiamento, forse il più grande cantautore post-moderno di tutto il panorama della musica folk poiché è riuscito a fare suo il codice di un genere musicale per poi rielaborarlo, stravolgerlo, addirittura tradirlo, e poi restituirlo ai suoi fan in una maniera così inaspettata che c’è voluto del tempo per poterlo capire, accettare e apprezzare.
Come da dettame della tradizione musicale folk, Dylan si è fatto conoscere per le sue canzoni ribelli (ed anche un .po’ sofferte e depresse alla Joan Beaz maniera), rese solidissime dal delicato e melodioso strimpellare di una chitarra accompagnata dal soave suono di un’armonica a bocca. Uno stile musicale “puro” che presto si è rivelato castrante per il cantautore di Duluth che, spinto da un’indomabile voglia di evolversi verso qualcosa di più complesso e moderno, nel giro di pochi anni ha messo in piedi una piccola band e ha iniziato a contaminare la musica folk con strumenti elettrici ed assordanti. Un modo di fare musica folk incomprensibile per l’epoca e che portò i suoi fan a sentirsi traditi, come dimostra il famoso concerto tenutosi il 25 luglio del 1965 al Newport Folk Festival dove Dylan fu preso a insulti e fischi dopo essere stato l’eroe di quello stesso palcoscenico per ben due anni.
Sotto questo preciso punto di vista, considerando la sua voglia di rompere gli schemi senza il timore di deludere le aspettative di chi lo ha reso un divo, Bob Dylan riesce ad essere ancora oggi un artista incredibilmente moderno e avanguardistico. Anzi, forse oggi più di ieri. Si, perché essendo quella che viviamo l’epoca del fandom (tossico) a tutti i costi e delle aspettative che non possono essere tradite ma solo assecondate, Bob Dylan assurge oggi a simbolo incontestabile di ciò che deve essere l’Arte per poter lasciare una traccia indelebile nella Storia e, di conseguenza, cosa deve essere disposto a fare l’Artista per far sì che la cultura possa essere in continuo movimento e mutamento anziché auto fagocitarsi in un lento progredire verso l’autodistruzione.
James Mangold, in A Complete Unknown, decide di raccontare Bob Dylan all’interno di un biopic che riesce ad essere estremamente classico pur prendendosi qualche piccolo rischio di struttura. Partendo da quando Dylan era solamente un ragazzo con la chitarra in cerca di fortuna (e il titolo, infatti, non può che essere più esplicito di così), A Complete Unknown si rifugia sin da subito all’interno di una cornice che più classica di così non può essere, raccontando i primi fortunati incontri, gli amori tanto casuali quanto importanti, le prime incredibili hit e poi quel successo inaspettato che inevitabilmente rischia di divorare tutto e tutti, bruciando l’anima e arrecando dolore alle persone più care.
Una struttura narrativa praticamente preimpostata sulla quale Hollywood, un po’ da sempre, cerca di far aderire tutti i biopic (soprattutto quelli che contemplano l’elemento artistico) e che qui si concede l’unica variazione nel riassumere il percorso artistico di Bob Dylan attraverso due anni significativi: il 1961, quando incontra Pete Seeger e dunque imbocca la scorciatoia verso il successo, e il 1965, quando nel pieno della celebrità inizia a muovere i primi passi al fuori del classico folk.
Ciò che colpisce maggiormente durante la visione di A Complete Unknown è proprio lo sguardo di James Mangold, che del film è anche co-sceneggiatore e co-produttore, uno sguardo smarrito e poco ispirato, quasi incapace di riuscire a trovare un focus sulla vicenda per poter rendere interessate Bob Dylan come protagonista cinematografico al di là della sua iconica fama musicale.
Pur essendo un film fortemente voluto dal regista di Le Mans ‘66 – La grande sfida, A Complete Unknown ha il respiro di un film su commissione realizzato senza particolare entusiasmo e trasporto. È il cuore, infatti, a mancare nel film più di ogni altra cosa e la sensazione è quella che James Mangold non sia mai riuscito ad entrare davvero in empatia con il suo protagonista, Bob Dylan, raccontandolo sempre con la dovuta distanza e senza farci vivere l’impeto delle sue scelte o le emozioni della sua arte.
Nel film, infatti, il nostro ci viene narrato come un ragazzino talentuoso ma capriccioso, pronto a montarsi la testa alla prima attenzione ricevuta. Il Bob Dylan di Timothée Chalamet è un personaggio bidimensionale con cui è davvero impossibile entrare in sintonia.
Il grosso problema di A Complete Unknown, infatti, sorge nel momento in cui ogni passaggio del film appare frettoloso, superficiale, raccontato per il dovere più che per il piacere. Quello di Mangold è perciò un biopic freddo e formale che sintetizza l’ascesa al successo di Dylan attraverso gli eventi più significativi che lo hanno condotto a diventare una leggenda del folk senza precedenti.
Mangold conduce l’intero racconto senza emozione, non si preoccupa di approfondire Bob Dylan come artista ma nemmeno di raccontarlo come semplice uomo. Stando a ciò che il film racconta infatti, e a come lo racconta, Dylan sembra solamente un insopportabile stronzo fine a sé stesso, un bambino capriccioso, perché A Complete Unknown adotta la scelta di sorvolare su tutti i momenti più delicati e stratificati del racconto e non c’è mai una reale introspezione dei personaggi. Non si sviscera minimamente la dimensione socio-politica del contesto o del protagonista, così come non si scava realmente nella sfera musicale o sentimentale. Ogni cosa è piatta, priva di una dimensione interessante, raccontata come a volersi limitare al: è così che sono andate le cose.
Timothée Chalamet è un Bob Dylan un po’ stereotipato che rincorre la somiglianza con l’artista (sia fisica che nel modo di parlare e biascicare) ma fornendo anche un’interpretazione molto monocorde e di superficie, quasi macchiettistica con quel fare da artista tormentato e sfuggente.
Completano il cast Edward Norton, che interpreta Pete Seeger nonché il personaggio più interessante dell’intero film, Elle Fanning, nei panni della sofferente fidanzata Sylvie che non riesce a scendere a patti con la fama del suo ragazzo, e Monica Barbaro nel ruolo di una Joan Beaz che ha gli stessi difetti del film, ovvero un personaggio potenzialmente interessante ma purtroppo incompiuto.
Dopo tanti anni di attesa, dunque, era giusto aspettarsi qualcosa di più da questo A Complete Unknown così come era giusto aspettarsi qualcosa di più da un regista come James Mangold che negli ultimi anni sta mostrando un talento davvero tanto intermittente. Questo su Bob Dylan non è un film brutto, corretto nella forma e, nonostante la superficialità, mostra ogni cosa al posto giusto. Eppure, A Complete Unknown non arriva mai allo spettatore, non colpisce e non emoziona. Il film di Mangold è un po’ come una canzone orecchiabile ma così simile a tante altre che non si è capaci di ricordarla dopo averla ascoltata. Un po’ l’esatto contrario di ciò che è stato Bob Dylan nella Storia della musica.
Giuliano Giacomelli
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