Indiana Jones e il Quadrante del Destino, recensione in anteprima

Dal 28 giugno al cinema ritorna Indiana Jones, l’archeologo creato da George Lucas, interpretato da Harrison Ford e diretto da Steven Spielberg. Una presentazione che la dice lunga su uno dei franchise cult degli anni Ottanta e su uno dei personaggi indimenticabili della cinematografia d’azione e d’avventura. Complice del grande successo anche una colonna sonora iconica, firmata dallo storico collaboratore di Spielberg, il premio Oscar John Williams.

Questa premessa è solo per spiegare quali sono le aspettative di chi si siede in sala per assistere al quinto capitolo delle avventure di Indy: dopo una trilogia di successo (Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta – 1981; Indiana Jones e il tempio maledetto – 1984; Indiana Jones e l’ultima crociata – 1989) e un quarto film (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo – 2008), il meno riuscito forse, con qualche buono spunto, parecchi inseguimenti e un gradito ritorno, quello di Marion, la fidanzata storica di Indiana; senza dimenticare che il nostro archeologo ha ormai parecchi acciacchi, e ci si chiede se abbia ancora voglia di correre dietro a chi vuol trasformare l’arte in merce. Non solo aspettative, dunque, ma anche la speranza di una storia coinvolgente sulle tracce del misterioso e leggendario reperto di turno, capace di fornire tutte le risposte, con il professore di archeologia più avventuroso del grande schermo che la spunta sempre grazie a un mix di conoscenze, agilità e fortuna.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino ci catapulta immediatamente in uno scenario ben noto, dove sul finire della Seconda Guerra Mondiale i nazisti hanno catturato una spia americana. Il prigioniero incappucciato viene condotto al cospetto del generale e presto ci viene svelata la sua identità: è Indiana Jones che cerca di impedire all’esercito in fuga di trafugare opere d’arte e reperti archeologici di grande valore, in particolare la lancia di Longino, l’arma che trafisse il costato di Gesù. Suo compagno di avventura è l’inerme archeologo Basil Shaw (Toby Jones). Dopo una tentata impiccagione, una sequela di avvenimenti più o meno fortuiti salva il collo di Indiana che riesce a salire sul treno che trasporta i reperti, il suo amico prigioniero e il nazista da ‘battere’, il fisico Jürgen Voller interpretato da Mads Mikkelsen, oltre naturalmente a un nutrito manipolo di nazisti da eliminare.
La lancia di Longino si rivela un falso ma, durante il salvataggio dell’amico e la fuga dall’esercito, Indiana recupera una parte della macchina di “Antikythera” inventata da Archimede, ossia il quadrante del destino.

Siamo nel 1969, il presente, e ritroviamo Indiana Jones vecchio, malandato e burbero. I vicini tengono il volume della musica troppo alta e lui deve firmare i documenti di divorzio da Marion. L’unica certezza è l’università dove ancora tiene lezioni a una classe assonnata e disinteressata, ma è l’ultimo giorno di servizio prima della pensione. Sembra proprio che non ci sia né spazio né voglia per le avventure, se non fosse per una studentessa molto preparata che si rivela essere la figlia del defunto collega Basil, nonché la sua figlioccia. Helena (Phoebe Waller-Bridge) cerca il quadrante per rivenderlo ed estinguere un grosso debito, ma non sa di essere pedinata dal fisico che ha praticamente mandato gli americani sulla luna, il malvagio Jürgen Voller.

Ci sono tutte le premesse per una grande avventura che si dipana tra New York, Tangeri e Siracusa: tornano i vecchi amici, Sallah (John Rhys-Davies), a cui se ne aggiungono di nuovi, Renaldo (Antonio Banderas). C’è la commistione tra scienza e leggenda, tra realtà e fantasia, così come l’archeologia permette d’immaginare. Indiana Jones fatica ad arrampicarsi, ma ritrova verve e vitalità alla guida, soprattutto se i nemici sono ancora una volta i nazisti. Col suo cappello e la frusta torna invincibile, o quasi. Le sue ferite, fisiche e non, si fanno sentire.

Considerando le vicissitudini produttive che hanno allungato i tempi, l’acquisto della Lucasfilm da parte della Disney, i passaggi della sceneggiatura di mano in mano, la regia che per la prima volta nel franchise non è di Spielberg ma di James Mangold e i 15 anni trascorsi dal quarto capitolo, direi che Indiana Jones e il Quadrante del Destino è la giusta conclusione per il personaggio interpretato da Harrison Ford.

La sceneggiatura è costruita rispettando l’evoluzione di Indiana, ma valorizza anche il personaggio di Helena, magnificamente interpretato da Phoebe Waller-Bridge, decisamente più credibile del figlio Mutt Williams (Shia LaBeouf) visto nel quarto film. In questo capitolo il figlio di Indy non compare, ma c’è e ha il suo peso nella storia. Tornando a Helena, detta ‘vombato’, trovo sia un personaggio ben sfaccettato, spregiudicato e simpatico, odioso e intraprendente, agile e coraggioso, sicuramente un degno erede del nostro archeologo. Non posso dire lo stesso per il cattivo nazista di Mads Mikkelsen che porta a casa il lavoro, ci mancherebbe, ma finisce per interpretare il solito cattivo, in un’altra epoca e con un diverso abbigliamento, ma sempre lo stesso malvagio (Le Chiffre in Casino Royale, Kaecilius in Dottor Strange,  Grindewald in Animali fantastici e i segreti di Silente).

La regia di Mangold non delude, anche se ripercorre il sentiero tracciato da Steven Spielberg senza innovazioni di rilievo, ma è comprensibile quando si entra a far parte di un franchise così amato.

Ultime, ma non meno importanti, le considerazioni sulla CGI. Sappiamo perfettamente che è l’argomento del momento, la nota più o meno dolente e, spesso, il fulcro attorno cui orbitano i detrattori. La computer grafica applicata all’animazione ci ha sicuramente regalato mondi nuovi e meravigliosi, mentre l’applicazione a scenari realistici con esseri umani, più o meno invecchiati o ringiovaniti, non produce sempre gli stessi risultati.
In questo caso, sebbene abbia letto pareri contrastanti in merito, non ho trovato nella CGI il tasto dolente del film. Dal mio punto di vista, però, la premessa è che quando si va al cinema bisogna crederci, soprattutto quando si tratta di fantasy, fantascienza, azione e avventura. E qui la mia prima reazione è stata di sorpresa da una parte, dall’altra di grande affetto e nostalgia per un personaggio a cui non voglio rinunciare. Ci ho creduto e questo basta. Del resto, alcune icone cinematografiche sono immortali e Indiana Jones è una di questa.

Non è facile mantenere il livello di una trilogia di successo, è accaduto con Star Wars e anche con il quarto film di Indiana Jones, nonostante la mano di Spielberg, ma alla luce di questo capitolo, immagino conclusivo se non altro per la presenza di Harrison Ford, si riguarda al passato come si riguardano le foto di una vita, con alti e bassi, con affetto e nostalgia.

L’era di Harrison Ford/Indiana Jones volge al termine per lasciare spazio a figli e/o figliocce, così come è accaduto ad Han Solo di Star Wars (sempre Harrison Ford), ma non sempre le evoluzioni sono inferiori agli originali, basti pensare al James Bond di Daniel Craig che ha ridato vita e freschezza a un franchise ormai inadeguato ai tempi attuali.

Raffaella Vicario

PRO CONTRO
  • La caratterizzazione dei personaggi (Indiana Jones, Helena Shaw).
  • La storia.
  • I luoghi e le location.
  • La regia senza guizzi.
  • Mads Mikkelsen, bravo eh, me fa sempre lo stesso cattivo, cambia solo epoca e abbigliamento…
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