Civil War, la recensione del thriller fantapolitico di Alex Garland

The Star-Spangled Banner, ovvero quello che conosciamo comunemente come inno nazionale americano, nel suo primo verso recita:

<<E il rosseggiar dei razzi, e le bombe che scoppiavano in aria mostrarono, nella notte, che la nostra bandiera era ancora là. Di’ dunque, lo stendardo lucente di stelle sventola ancora sul paese degli uomini liberi, e sulla dimora dei coraggiosi?>>

Alex Garland, nel suo Civil War, coglie l’essenza del poemetto scritto da Francis Scott Kay ed eletto a Inno Nazionale da Thomas Woodrow Wilson e la ribalta facendo di quella bandiera a stelle e strisce il simbolo della divisione, dell’oppressione, del disonore in un conflitto bellico immaginario che sembra dannatamente realistico. Così lo stendardo che vediamo sventolare nel film di Garland mantiene le 13 strisce orizzontali, che rappresentano le colonie originarie da cui sono nati gli Stati Uniti, ma le 50 stelle sono pesantemente ridimensionate a sole due, come gli Stati che si fanno portatori della rivolta, Texas e California, ovvero il cosiddetto Fronte Occidentale. 

In Civil War, che inaugura l’ingresso della A24 nelle produzioni ad alto budget – il film è costato 50 milioni di dollari – si racconta un fantomatico conflitto interno che ha spaccato gli USA e vede le truppe occidentali contrapporsi ai sostenitori del Presidente in una sanguinosa battaglia in cui è impossibile riconoscere chi è chi, vista l’indistinguibilità delle divise di guerra, quelle dell’esercito americano. In questo scenario apocalittico, si muovono da New York a Washington un quartetto di giornalisti e fotoreporter intenzionati a strappare al Presidente in carica un’ultima intervista e documentare l’imminente assalto della Casa Bianca da parte delle forze secessioniste. Joel, Lee, l’anziano Sammy e la giovane aspirante fotografa Jessie si mettono in viaggio su un SUV testimoni delle barbarie che stanno affliggendo il loro Paese.

Dopo aver scandagliato l’animo umano e le enormi contraddizioni che lo muovono con film di genere fantastico (Ex Machina, Annientamento, Men), il regista e sceneggiatore britannico Alex Garland passa a una storia realistica. Attenzione, realistica e non reale proprio perché, alla base del progetto, c’è sempre e comunque una distopia che immagina un “incubo” possibile. Una Seconda Guerra Civile Americana che non ha mancato di sollevare polemica ancora prima che il film fosse uscito andando a confermare esattamente la tesi che l’opera muove, ovvero la miopia creata dalle divisioni politiche che può deflagrare in apocalisse.

In Civil War non conosciamo le ragioni che hanno dato origine al disastro, non sono il focus del discorso, ma conosciamo gli esiti che si manifestano in una profonda lacerazione del Paese in una guerra senza colori che, in fondo, è anche una guerra senza senso. Il film non vuole prendere delle parti politiche, il motivo per cui Texas e California – Stati profondamente divisi e simbolo dell’attuale dualismo politico americano – si sono uniti contro Washington è solo un enorme macguffin per parlare tanto dell’insensatezza delle guerre quanto della professione del reporter, una professione piena di rischio e di coraggio, a tratti da incoscienti, ma grazie alla quale possiamo avere uno sguardo diretto e imparziale sugli eventi.

E così questa avventura on the road da incubo lo spettatore la affronta al fianco di tre giornalisti più un’aspirante fotografa: Joel (Wagner Moura di Narcos) vuole fare il colpaccio intervistando il Presidente, in lui c’è la voglia di fare, di sfidare il pericolo, di chi ama incondizionatamente il proprio lavoro e ne ha fatto una ragione di vita; Lee (una magnifica Kirsten Dunst) è una fotoreporter professionista e la realtà che lo spettatore scopre viene filtrata dall’obiettivo della sua macchina fotografica, conosce bene il suo lavoro e come svolgerlo, quindi è prudente ma non perde mai l’occasione di stare al centro dell’azione. Sammy (Stephen McKinley Henderson) è il veterano del gruppo, ormai in pensione e decisamente attaccato ai pochi anni che gli rimangono per rischiare la pelle in modo “stupido”. Infine, c’è Jessie (Cailee Spaeny, recente Coppa Volpi a Venezia per Priscilla), giovane aspirante fotoreporter “salvata e adottata” da Lee, grazie alla quale sta imparando tutti i trucchi del mestiere.

Al fianco di questo quartetto, viviamo gli orrori della guerra in maniera non dissimile da quelli che le cronache della Storia ci hanno testimoniato nei vari conflitti documentati che hanno infiammato il mondo. Lo sguardo cinico, apolitico e disinibito dei professionisti dell’informazione è un modo per gettare ogni filtro e vivere il conflitto per quello che rappresenta davvero: un modo per dare sfogo ai più bassi istinti umani, quelli che finiscono inevitabilmente nel sangue.

Nel lungo viaggio che li porta a Washington, infatti, i nostri “eroi” avranno molti momenti per documentare l’orrore, che ha il suo climax nell’incontro con un gruppetto di soldati razzisti (e qui la fermezza, la nonchalance con cui Jesse Plemons umilia e uccide è davvero terrificante), ma in un momento in particolare capiamo il senso di tutto. Ovvero che il senso si è perso, o forse non c’è mai stato. In una sequenza, i quattro rimangono bloccati in un avamposto improvvisato perché da una fattoria all’orizzonte un cecchino sta facendo fuoco contro chiunque e lì, bloccati con loro, ci sono due soldati mimetizzati che tentano di far fuori il cecchino. Perché si sparano? Appartengono a fazioni differenti? No, semplicemente ognuno di loro cerca di sopravvivere ignorando chi sia in realtà l’altro su cui sta facendo fuoco. È l’insensatezza della guerra, la deriva a cui conducono gli estremismi, l’odio e la paura seminate da politici che hanno come unica strategia demonizzare l’avversario per fa valere le proprie ragioni, acuendo così le divisioni e bandendo completamente il dialogo.

Garland, anche sceneggiatore, sembra rifarsi in maniera fin troppo puntuale a DMZ, la serie a fumetti di Brian Wood con cui presenta più di una similitudine, di cui non è trasposizione. L’autore, però, non sembra tanto concentrarsi sulla caduta dell’America e dei valori che rappresenta, che sono già pesantemente compromessi al di fuori del racconto, quanto sul valore del lavoro del giornalista di guerra. È su questa figura che Garland insiste costruendo un ideale percorso di crescita nel personaggio di Jessie che la porta, nell’arco delle due ore, a sovrapporsi a quello di Lee in un ideale passaggio di testimone. Perché è importante, anzi fondamentale, che l’occhio della fotocamera rimanga puntato sulla realtà: è l’unico in grado di fornire una testimonianza ai posteri così che possano scegliere di non compiere gli stessi errori.

Civil War offre un ottimo spettacolo d’intrattenimento perché oltre ad essere un film con un messaggio ben preciso e con delle ambizioni, è anche un bellissimo action/thriller bellico, con alcuni momenti di grande intensità e tensione e altri incredibilmente adrenalinici nel segno della migliore azione. Oltre alla regia, che sa valorizzare la spettacolarità dei momenti più fragorosi e concitati, c’è anche una grande importanza per il sound design, con un utilizzo del suono particolarmente avvolgente che trasporta lo spettatore direttamente dentro l’azione.

Alex Garland realizza con Civil War il suo film più maturo e completo, uno sguardo lucido sulle contraddizioni dei nostri tempi che sono anche le contraddizioni su cui è stata fondata la società occidentale democratica. Il film ci parla di un vicino futuro distopico, ma è fin troppo facile scorgere in questa fantasiosa guerra civile lo specchio incrinato del nostro presente, quello reale.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Affronta un discorso importante e, pur senza retorica, può essere letto come un monito sull’insensatezza della guerra.
  • Il cast, con Kirsten Dunst e Cailee Spaney in cima a tutti.
  • Le scene d’azione, coinvolgenti e immersive.
  • Non si riscontrano reali punti a sfavore ma parliamo di un film che richiede comunque una certa predisposizione dello spettatore all’analisi del contesto. Se non la si possiede ci si può trovare davanti a un film bellico che lascia troppi interrogativi insoluti.
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