Back to Black, la recensione del biopic su Amy Winehouse

Possiamo far risalire al 2018 e al successo mondiale di Bohemian Rhapsody la spinta per le case di produzione di investire in biopic che raccontano le vite dei grandi della musica popolare. Dal film su Freddy Mercury si sono infatti succeduti rapidamente Rocketman su Elton John, Stardust su David Bowie, Aline – La voce dell’amore su Celine Dion, Whitney – Una voce diventata leggenda su Whitney Houston, Elvis di Baz Luhrmann (e con intenti differenti Priscilla di Sofia Coppola) su Elvis Presley e One Love su Bob Marley. L’Italia non sta a guardare e rilancia – in tv – con Io sono Mia su Mia Martini, Califano sull’omonimo cantante romano, Sei nell’anima su Gianna Nannini e la serie Hanno ucciso l’Uomo Ragno sugli 883 in arrivo questo autunno. Inoltre, uno degli eventi più attesi del prossimo anno è il biopic su Michael Jackson diretto da Antoine Fuqua. In mezzo a cotanta musica su schermo si inserisce un po’ in sordina Back to Black, co-produzione tra Gran Bretagna e Stati Uniti che racconta il mito di Amy Winehouse, dagli esordi musicali alla sua tragica morte nel luglio del 2011 a soli 27 anni.

Ma quello diretto da Sam Taylor-Johnson, che ha un importante passato musicale con i Pet Shop Boys ma è anche responsabile del brutto Cinquanta sfumature di grigio, è davvero molto lontano dai fasti di prodotti come Bohemian Rhapsody, Rocketman ed Elvis, ma si avvicina di più a un superficialissimo film tv che davvero non riesce a rendere giustizia a una grande artista dalla personalità complessa come Amy Winehouse.

Back to Black ci introduce una diciottenne Amy, londinese di Camden Town, figlia di genitori separati con una grande passione per il jazz e un rapporto speciale con la nonna. La bellissima voce di Amy le consente di esibirsi con successo nei locali della città finché viene notata da chi la musica la produce e le viene proposto un contratto con un’importante etichetta discografica. Nonostante non sia disposta a scendere a compromessi e sviluppi una personalità sempre più ingestibile, Amy inizia una scalata al successo che la porta a diventare famosa in tutto il mondo e a vincere ben 5 Grammy. Intanto Amy si addentra in una relazione tossica con il cocainomane Blake e la dipendenza da alcool inizia a compromettere la sua carriera.

Se conoscete Amy Winehouse e amate la sua musica, probabilmente odierete questo film.

Quello condotto da Sam Taylor-Johnson è un biopic dall’obiettivo ben chiaro che mal si lega all’immagine che questa artista ha dato di sé negli anni di celebrità, ovvero limitare al minimo l’alone dannato che le ha gravitato attorno per dar spazio al suo lato più umano. Questa chiave per raccontare Amy Winehouse da una parte può essere apprezzata per restituire un’immagine della cantante che è stata messa in ombra dalla sua vita di eccessi, ma dall’altro mostra una preoccupante superficialità che porta a un racconto infantile e incredibilmente morigerato.

La prima metà del film è raccontata come un teen-movie americano di quelli che passano il pomeriggio sulle reti Mediaset, con una ingenua Amy che sogna il palcoscenico cantando e suonando la chitarra nella sua cameretta dalle pareti rosa. Viene approfondito moltissimo il rapporto tra Amy e sua nonna in modo da servire su un vassoio d’argento il più classico degli espedienti da tv-drama: la rivelazione che la nonnina è malata di cancro, che avviene al parco durante un pic-nic tra la donna e la nipotina. A queste ingenuità da fiction si aggiunge una cattiva gestione temporale interna al racconto a tal punto da creare confusione nel comprendere lo scorrere del tempo (anche perché, in quasi dieci anni, gli attori non cambiano mai fisionomia e, Amy Winehouse a parte, neanche il look e l’abbigliamento!).

L’inserimento puntuale delle hit Back to Black e Rehab non basta a restituire allo spettatore l’idea di guardare un film su Amy Winehouse perché, al di là della bravura dell’attrice Marisa Abela (non troppo somigliante alla cantante), manca quasi completamente l’approfondimento sul percorso autodistruttivo della protagonista.

Viene portato in scena solo il suo “amore per la bottiglia” che non arriva mai ad essere descritto come una vera e propria dipendenza da alcool e infatti il momento in cui viene internata in un rehab occupa pochi secondi verso la fine della storia. Non si punta mai sulla sua tossicodipendenza, anzi, la vediamo fumare solo spinelli e criticare pesantemente il marito per l’uso di cocaina, quando nella realtà Amy ha avuto una dipendenza da droghe pesanti che l’ha portata a problemi con la legge e a un disturbo alimentare (bulimia) di cui nel film non si fa cenno, se non lasciandolo intendere in una scena in cui viene rimproverata dalla sua coinquilina perché vomita tutte le notti in bagno.

Anche sull’indole violenta dell’artista si sorvola e l’episodio di rissa fuori da un locale in cui si esibiva appare quasi intruso per mancanza di un reale contesto. L’unica sequenza in cui davvero emerge lo squallore a cui stava conducendo la vita sregolata di Amy è quando, durante un concerto, mostra in maniera evidente e disagevole il suo stato alterato.

Sam Taylor-Johnson cerca, dunque, di ripulire l’immagine di un’artista che ci ha lasciato troppo presto approfondendo i suoi affetti, quello per la nonna (Leslie Manville) e per il padre (interpretato da un sempre magnifico Eddie Marsan), ma anche il suo rapporto di dipendenza dal poco di buono Blake, interpretato da Jack O’Connell. Così ne viene fuori un racconto falsato e superficiale che ha il grande difetto di non riuscire a creare la giusta enfasi drammatica attorno a questa discussa figura, tanto che l’annuncio della sua morte – che arriva con la classica didascalia bianco su nero a chiusura del film – si perde in un anticlimax che non riesce a restituire minimamente il dramma che ha affrontato una delle più celebri esponenti del famigerato Club dei 27.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Marisa Abela e buona parte del cast.
  • Un racconto superficiale che sminuisce la vita di Amy Winehouse in un teen-movie televisivo.
  • Una cattiva gestione dei tempi narrativi.
  • Mancano troppi episodi fondamentali che hanno condotto l’artista alla prematura morte.
  • Se conoscete e amate Amy Winehouse questo film vi farà andare in bestia: cercando di “riabilitare” la sua immagine, sembra realizzato da chi non conosceva affatto la vita dell’artista.
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