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Back to Black, la recensione del biopic su Amy Winehouse
Possiamo far risalire al 2018 e al successo mondiale di Bohemian Rhapsody la spinta per le case di produzione di investire in biopic che raccontano le vite dei grandi della musica popolare. Dal film su Freddy Mercury si sono infatti succeduti rapidamente Rocketman su Elton John, Stardust su David Bowie, Aline – La voce dell’amore su Celine Dion, Whitney – Una voce diventata leggenda su Whitney Houston, Elvis di Baz Luhrmann (e con intenti differenti Priscilla di Sofia Coppola) su Elvis Presley e One Love su Bob Marley. L’Italia non sta a guardare e rilancia – in tv – con Io sono Mia su Mia Martini, Califano sull’omonimo cantante romano, Sei nell’anima su Gianna Nannini e la serie Hanno ucciso l’Uomo Ragno sugli 883 in arrivo questo autunno. Inoltre, uno degli eventi più attesi del prossimo anno è il biopic su Michael Jackson diretto da Antoine Fuqua. In mezzo a cotanta musica su schermo si inserisce un po’ in sordina Back to Black, co-produzione tra Gran Bretagna e Stati Uniti che racconta il mito di Amy Winehouse, dagli esordi musicali alla sua tragica morte nel luglio del 2011 a soli 27 anni.
Money Monster – L’altra faccia del denaro, la recensione
C’era un tempo in cui Hollywood preferiva non palare di economia, borsa o finanza. Argomenti troppo ostici per il pubblico medio e potenzialmente noiosi. Poi Oliver Stone osò con Wall Street, dove il Dio-Denaro si faceva ovviamente metafora della corruzione con una efficacia da thriller morale che ha fatto scuola. Al di là dell’inutile sequel di Wall Street, diretto dallo stesso Stone nel 2010, negli ultimi anni – anzi mesi – l’argomento finanza sembra essere stato altamente sdoganato al cinema e se Michael Moore con Capitalism: A Love Story ha affrontato l’argomento con la sua classica verve ironico/polemico/satirica e Martin Scorsese con The Wolf of Wall Street l’ha tenuto come contesto per raccontare la parabola discendente di un pessimo esempio di essere umano, è stato Adam McKay con La grande scommessa a sdoganare l’aspetto più pornografico della finanza.
’71, la recensione
I conflitti civili che hanno insanguinato le strade dell’Irlanda del Nord attraverso i decenni hanno trovato sporadiche rappresentazioni per mezzo cinematografico cercando di raccontare storie vere, di uomini ed eventi che hanno segnato la storia. Il Michael Collins con il volto di Liam Neeson diretto da Neil Jordan ne è forse il più illustre rappresentante, anche se non sono rari gli esempi di cinema (spesso indie) britannico che fornisce una testimonianza di quegli eventi. L’esordiente Yann Demange, che viene dalla televisione con le serie per Channel 4 Toy Boy e soprattutto la seminale Dead Set, decide di non affidarsi a “storie vere” e adatta una sceneggiatura di Greg Burke che di reale ha un periodo storico raccontato e un’immagine ben impressa nella mente del produttore Angus Lamont, che ricorda di aver letto un articolo che raccontava la testimonianza di chi quella guerra l’aveva vissuta. In quell’articolo era descritto un soldato britannico, poco più che adolescente, accovacciato terrorizzato e in lacrime in mezzo alla folla di rivoltosi. Questa è la storia di ’71, l’odissea di un giovane soldato inglese che viene involontariamente abbandonato dalla sua unità nel bel mezzo di una rivolta scoppiata per le strade di Belfast.
Unbroken, la recensione
È da oggi nelle sale, con Universal Pictures, l’opera seconda di Angelina Jolie, che è tornata dietro la macchina da presa, dopo In the Land of Blood and Honey, per dirigere Unbroken. La pellicola, che intreccia dramma bellico, biopic e survival movie, racconta la movimentata storia vera dell’atleta olimpico Louis “Louie” Zamperini, interpretato dal giovanissimo Jack O’Connell (visto in 300 – L’Alba di un Impero). Zamperini, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, è prima sopravvissuto 47 giorni disperso nell’Oceano con altri due compagni e, poi, ha affrontato due terribili anni di prigionia in un campo di lavoro giapponese, sotto il torchio dello spietato Mutsushiro “The Bird” Watanabe.