A Working Man, la recensione del film con Jason Statham

All’interno del macro-genere action c’è un filone molto codificato che è quello del “giustiziere”. Parliamo di una tipologia di film, per lo più di derivazione letteraria e dalle forti influenze nel noir classico americano, che ci mette nei panni di un uomo solo e possibilmente traumatizzato, preferibilmente con un vissuto colmo di scheletri e una preparazione militare, che è costretto suo malgrado a rivangare nel suo passato di violenza per una questione del presente, non essenzialmente collegata al suo vissuto (ma se lo è, la posta in gioco cresce). Insomma, parliamo del cinema dei Charles Bronson, che di volta in volta ha aggiunto volti di pregio al campionario degli action-men: da Sylvester Stallone a Mel Gibson, Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis, Clint Eastwood e Lee Marvin, con veri e propri specialisti come Chuck Norris, Steven Seagal, Jean Claude Van Damme e Dolph Lundgren. Una tradizione che si è rinnovata nei decenni e ha aggiunto personalità di livello al catalogo dei giustizieri, come Liam Neeson, Denzel Washington e Keanu Reeves. Ma c’è un nome che riecheggia ormai da decenni nel panorama del cinema action, spesso proprio nel filone dei giustizieri, e quel nome è Jason Statham che, in un colpo solo, incarna le qualità di un po’ tutti i nomi citati.

Statham ha ormai un curriculum corposo ed è una delle super-star del panorama d’azione, ma l’uscita nei cinema (e il successo negli Stati Uniti) di A Working Man ci dice che la sua aderenza al personaggio del “giustiziere” si sta facendo sempre più insistente.

Tutto è iniziato, infatti, nel 2024 con il successo inaspettato di The Beekeeper, gustosissimo b-movie d’azione diretto da David Ayer e scritto da Kurt Wimmer che si poneva un po’ come variante più muscolare di The Equalizer. L’ottimo riscontro al botteghino e il consenso della critica di settore ha smosso qualcosa perché Amazon-MgM ha subito acchiappato Statham e Ayer acquistando i diritti di distribuzione di un film che è praticamente un “The Beekeeper lookalike”. E per dar vita a un nuovo giustiziere che di nuovo non ha nulla viene scomodato il romanzo di Chuck Dixon Levon’s Trade adattato per il grande schermo nientemeno che da Sylvester Stallone che produce anche il film. Nasce così A Working Man, un action tanto pigro quanto onesto che ha scalato le classifiche degli incassi americani fin dal suo weekend di esordio, arrivando a scalzare dalla vetta Biancaneve in men che non si dica.

Levon Cade ha un passato nell’esercito, è infatti un ex-agente Black Ops dei Royal Marines ma, dopo un’incidente, ha chiuso con la vita militare e ha iniziato a lavorare come operaio edile. Levon ha un ottimo rapporto con la famiglia Garcia, proprietari della ditta di cui è capomastro, e quando la diciannovenne Jenny, che lavora come contabile nell’attività di famiglia, viene rapita, Levon si mette sulle tracce dei trafficanti di esseri umani che l’hanno sottratta ai suoi cari.

Se il Levon Cade di Jason Statham è praticamente identico al suo Adam Clay in The Beekeeper (comportamento, abbigliamento, espressioni), la costruzione narrativa e i twist di A Working Man ricordano molto da vicino successi dell’ultimo ventennio come Io vi troverò – Taken e The Equalizer. Quindi se vi piacciono questi film non c’è motivo per cui non dobbiate apprezzare anche A Working Man.

Capirete, però, che non c’è davvero nulla, ma proprio nulla, di originale nel film diretto e co-sceneggiato da David Ayer, a tal punto che mentre scorrono le scene si ha l’imbarazzante sensazione di averlo davvero già visto A Working Man. Siamo a un livello superiore in confronto al déjà-vu, allo stato di sublimazione del “muoversi in territori sicuri”.

L’azione arriva molto presto e Levon getta la maschera tradendo i suoi abiti proletari già nei primi dieci minuti di film. Ayer e Stallone hanno premura di portare subito lo spettatore dentro la storia definendo eroi e cattivi, dove questi ultimi sguazzano nello stereotipo della viscida criminalità europea di matrice russa, proprio come accadeva nei gloriosi action di metà anni ’80. E credo sia inutile andare a scorgere riferimenti all’attualità politica e all’impopolarità di Putin: al cinema il nemico storico degli USA è la Russia, dall’iconico Ivan Drago a Viggo Tarasov di John Wick, passando per il Colonello Podovsky di Rambo II. Fa sempre tutto parte della codifica di genere di cui sopra.

Ma A Working Man ha anche un eroe con un concreto vissuto e un presente problematico. Levon Cade è un uomo disturbato, ce lo dicono chiaramente all’inizio del film e lo vediamo nel suo comportamento estremamente violento. Però la sceneggiatura ci chiede di sperare che sua figlia venga affidata a lui dopo la morte di sua moglie, invece che al nonno antipatico che si comporta esattamente con un ricco stronzo. Quindi Levon, prima di mettersi alla ricerca della ragazza rapita, deve far fronte ai suoi problemi personali e famigliari, al fatto che non ha neanche una casa perché spende tutti i soldi che guadagna per pagare gli avvocati che dovrebbero fargli ottenere l’affido. E gli unici che sembrano spalleggiare ed empatizzare con questo povero capomastro dalle mani pesanti sono i suoi datori di lavoro e i vecchi compagni d’armi, tra i quali c’è David Harbour in versione non vedente ma ugualmente gagliardo.

Ovviamente ottime le sequenze d’azione corpo a corpo, di cui Statham è un vero maestro, e non mancano esplosioni di violenza che alzano l’asticella del gore fino a far guadagnare un 14+ per la distribuzione italiana.

Insomma, se siete fan di Jason Statham e gradite il cinema ignorante dei giustizieri, con A Working Man andate davvero sul sicuro; se non rientrate nelle categorie vi troverete davanti al “solito film”. Un po’ di fantasia in più avrebbe sicuramente fatto guadagnare mezza stellina al film.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Il solido mestiere di Jason Statham e la sua faccia da duro.
  • Intrattiene in maniera più che onesta.
  • È il “solito” film.
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Valutazione: 6.5/10 (su un totale di 2 voti)
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