Ma Loute, la recensione

Inizio Novecento. In un piccolo paese di pescatori arriva una famiglia borghese che una volta l’anno apre la grande casa in stile egiziano-tolemaico (a me sembrava più neoclassico per gli interni ma tant’è) per godersi la villeggiatura: le passeggiate sulla spiaggia, l’acqua salmastra e la vista sulla collina “così suggestiva”. Compongono la famiglia gli sposi Fabrice Luchini e Valeria Bruni Tedeschi, la sorella di lui Juliette Binoche, e le loro figlie, tra cui l’enigmatica e androgina Billie (la giovane Raph). Tutti personaggi che vantano un indistinguibile vita propria e decisamente sopra le righe il cui percorso si incrocerà con quella di una famiglia di pescatori e il loro taciturno figlio chiamato Ma Loute (nome del protagonista ma anche termine desueto per dire donna) il quale si innamorerà immediatamente della giovane di buona famiglia. Tuttavia l’estate sarà rovinata da una serie di sparizioni sulle quali indagheranno un obeso detective (doppiato magnificamente in italiano da Mino Caprio alias Peter Griffin, le cui fattezze ricordano per stazza e portamento l’iconico Oliver Hardy) e il suo tanto buffo quanto elegante assistente.

Ma Loute parla di cose tremende come il cannibalismo, ma riesce a farle passare in sordina grazie al setaccio della comicità: “unica e grande dispensatrice di leggerezza”. In questo microcosmo filmico c’è un intenso contrasto tra bene e male: “siamo tutti cretini e geni, santi e pesti”. La commedia umana è questa, lasciandoci intendere che al cinema ci si può divertire ma allo stesso tempo anche riflettere.

Estremizzando i due mondi, il regista francese Bruno Dumont lascia le sue star a briglie sciolte, facendone scaturire una recitazione frizzante e briosa, oltre che teatrale, per rimarcare l’ipocrisia di una nobiltà già all’epoca fuori luogo e decaduta. Di contro, alla famiglia di pescatori suggerisce di non dimenticare mai la natura infausta che ne contraddistingue anche gli stanchi tratti fisionomici, costringendoli a fagocitare (letteralmente) le carcasse come macilenti avvoltoi.

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Per trovare l’immagine e gli sfondi giusti il regista Dumont ha detto di essersi ispirato alla fotografia dell’epoca regalandoci un prodotto pregiato e visivamente raffinato.

Utilizzare il digitale per raccontare l’inizio del Novecento con la sua ricostruzione d’epoca si è rivelata una scelta vincente, che ha permesso, grazie all’iperrealismo, di farci toccare quasi con mano quel periodo, quel posto e quelle persone; il tutto guidato dalla prepotente forza della natura che sembra non scalfire minimamente gli scenari a scapito dei personaggi, i quali, guidati dalla stessa come adrenalinici e sconclusionati aquiloni, si renderanno presto conto di quanto impalpabile ed eterea sia la felicità.

Non ci sarà nessuno scambio di ruoli, né risoluzione degli enigmi, in questo film dove tutto si muove e nulla cambia. Tanto gli inconsistenti ed inconcludenti Van Peteghem quanto i basici e primordiali Brufort manterranno le loro essenze, le loro diversità, i loro limiti.

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L’unione e l’incontro, quello tra Ma Loute e Billie, rimarrà impossibile e incompiuto, per quanto desiderato, abbandonato con un po’ di malinconia (ma non eccessiva) da due giovani amanti che si sono rivelati i propri segreti e che sono rimasti delusi l’uno dall’altra.

Loro si sono salvati una volta, in mare, in una scena bellissima che strizza l’occhio alla pittura romantica, per il solito intervento della Grazia tanto cara al regista: ma per il resto, per il dopo, non si salva nessuno, condannati tutti a rimanere dove sono.

Non sarà tanto quello che succede a determinare la profondità delle vicende ma il come esse di srotolano pezzo dopo pezzo, rimanendo appunto (come un pesante tappeto) ben ancorate ad una tremenda realtà.

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Un’ottima pellicola quella del francese Dumont, già temprato dal successo della straordinaria miniserie P’tit Quinquin, ha voluto procedere sulla stessa strada: quella di un cinema che non ha paura della comicità più surreale e demenziale scolpendo nelle nostre menti a suon di ciak un’umanità multisfaccettata, che può essere splendida e mostruosa così come la natura stessa.

Un ottimo connubio tra contenuto e forma che mi auguro di assaporare sempre più spesso tra i lauti banchetti della “Settima Arte”.

Filippo Chinellato

PRO CONTRO
  • Visivamente appagante.
  • Personaggi ben scritti e rappresentati.
  • Ottime interpretazioni.
  • Certe scene comiche risultano ridondanti perdendo la loro efficacia.
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