Welcome to the Blumhouse: Bingo Hell, la recensione

Riprende il nostro approfondimento di Welcome to the Blumhouse, la serie antologica di lungometraggi (slegati tra loro) realizzata dalla casa di produzione di Jason Blum in collaborazione con gli Amazon Studios. Oggi parliamo di merce fresca considerando che, dallo scorso primo ottobre, Amazon ha reso disponibili i primi due episodi del secondo blocco da quattro, un anno dopo il precedente quartetto. Da una settimana, quindi, su Prime Video, potete trovare Bingo Hell e Black As Night. Se i primi quattro film erano accomunati dalla tematica della famiglia e dell’amore intese come forze redentrici o distruttrici, il nuovo poker gira intorno ad orrori istituzionali e fobie personali.

Bingo Hell è la prima regia di un lungometraggio per Gigi Saul Guerrero (che firma anche la sceneggiatura insieme a Shane McKenzie e Perry Blackshear), attrice e regista messicana (cresciuta in Canada), che viene da una gavetta fatta di corti, serie televisive e segmenti di film antologici diretti a più mani. Il film era stato mostrato in anteprima il 24 settembre al Fantastic Fest di Austin (Texas, Stati Uniti) per poi essere distribuito, una settimana dopo, in streaming in contemporanea mondiale sulla piattaforma di Jeff Bezos.

Togliamoci subito il dente. Bingo Hell non riesce ad evitare di cadere nella trappola delle promesse incompiute in cui erano già finiti altri prodotti analoghi, che siano di questa serie o della cugina Into the Dark. Quel proporre spunti interessanti, anche più di uno, senza poi venire a dama. Che per certi versi è un po’ una colpa più grave di chi già in partenza non ha niente da dire, perché l’occasione sprecata lascia più amaro in bocca del film semplicemente brutto. Ma entriamo nel dettaglio.

Siamo al cospetto di un horror di impostazione sociale, che attraverso un espediente classico della fantasia orrorifica come quello del vecchio vendere l’anima al diavolo, pone i riflettori su argomenti variegati come anziani, solitudine, senso della comunità, speculazione edilizia, vizio del gioco. Insomma, di carne a cuocere ne mette, peccato si dimentichi di accendere il fuoco.

La storia è ambientata a Oak Springs, piccola comunità multietnica in cui uno sparuto ma gagliardo gruppo di anziani resiste alle pressanti avances di una società edilizia che vorrebbe acquistare i terreni per radere al suolo la cittadina esistente e costruirci un centro abitato all’insegna di capitalismo e progresso selvaggio. Individui più o meno soli che trovano, proprio in questo gruppo di amici, quella famiglia che per qualche motivo non avevano o avevano perso. Il loro leader è Lupita, interpretata con simpatica energia da Adriana Barraza, donna sola che riesce a fare da collante di una struttura traballante con un ottimismo entusiasta che a volte diventa persino fastidioso per i suoi compagni di (s)ventura. Un ecosistema dall’equilibrio precario ma a suo modo collaudato, che viene minacciato dall’apertura di un nuovo bingo (infernale, appunto) in città, in cui il fantomatico Mr. Big offre vincite cospicue e soprattutto facili, col piccolo dettaglio che in cambio pretende la vita dei vincitori.

Il tono generale non cade nel buffonesco per quanto si mantenga prevalentemente leggero, anche quando la gente ci lascia la pelle. La parte iniziale sembra quasi una di quelle commedie agrodolci sulla terza età, introduce i personaggi ed il loro vissuto, le dinamiche che mandano avanti la comunità regalandole una sorta di serenità che va oltre i problemi di ognuno di loro. Per assurdo, Bingo Hell avrebbe anche potuto andare avanti in quel modo trovando, paradossalmente, maggiore coerenza rispetto a quella che invece perde nel momento in cui inserisce l’elemento orrorifico da noi tanto atteso. L’horror ha una connotazione grottesca, la minaccia è buffa e mai realmente inquietante, l’evento scatenante è chiaro, eppure non viene mai sviscerato nel modo necessario da creare un percorso di resistenza ragionata da parte del gruppo di aspiranti sopravviventi. Voglio dire, i vecchietti reagiscono, ma è praticamente tutto già scritto, col discorso motivazionale conclusivo che a quel punto arriva telefonato.

I temi, dicevo, ci sono – o ci sarebbero, fate voi. Ed è anche interessante il modo in cui si spazia tra argomenti differenti trovandovi poi un punto d’incontro. La condizione degli anziani lasciati in solitudine, che spesso magari affogano il proprio malessere emotivo nel vizio del gioco nell’effimera speranza di un successo economico che dovrebbe cambiargli la vita ma in realtà non arriverà mai, di fatto rovinandogliela ulteriormente. Una vera e propria piaga sociale, non so se vi è mai capitato di entrare in quei posti in cui si giocano concorsi con vincite istantanee, sempre pieni di giocatori (spesso anziani) dallo sguardo perso nello schermo come fossero zombie che se foste nudi manco ci farebbero caso. E ancora, il sempreverde (e spesso abusato) concetto dei soldi che non fanno la felicità. O ancora, la speculazione edilizia puntualmente pronta a schiacciare il debole nell’interesse del più forte. Per arrivare ad una conclusione speranzosa affidata ad un messaggio sull’importanza della comunità, il senso dell’unione, l’unità di intenti, carburante di una resistenza sociale che non bisognerebbe mai abbandonare.

La regia della Guerrero è discretamente curata, offre il meglio nelle sequenze di morte che, attraverso cari effetti vecchia maniera, offrono piacevoli momenti di disgusto che sfociano nel body horror. Persone scarnificate, mani tranciate, sangue denso e copioso, sostanze appiccicose non propriamente identificate. Un merito che però accentua un torto. Le morti sono poche, la quota horror non raggiunge abbastanza punti, non tanti quanto sarebbe lecito attendersi da un progetto che include Blumhouse addirittura nel titolo. Lo stesso discorso si può estendere a Mr. Big, ha il volto azzeccatissimo di un Richard Brake che probabilmente non deve ricorrere neanche a chissà quale make-up e che il ruolo lo porta a casa a occhi chiusi, peccato solo che tolto qualche discorso da sinistro imbonitore ed una dentatura igienicamente discutibile, non abbia quel tratteggio incisivo che ci si aspetterebbe da una figura a conti fatti demoniaca.

In definitiva, Bingo Hell si conferma un’altra occasione sprecata di queste serie antologiche targate Blumhouse. Un insieme di interessanti potenzialità contenutistiche vanificate da un meccanismo narrativo che si dimentica di arrivare al dunque, specie dal punto di vista orrorifico che dal canto suo fa pregustare momenti di sangue e disgusto senza poi calcare la mano come avrebbe dovuto.

Francesco Chello

PRO CONTRO
  • La presenza di un ventaglio di argomenti, anche diversi tra loro, di interesse sociale.
  • Le (poche) scene di morte hanno il giusto impatto di sangue e disgusto.
  • Meccanismo narrativo inefficace.
  • Lo spunto orrorifico non segue un percorso, nasce e muore senza il giusto approfondimento.
  • Le scene di morte sono, appunto, poche.
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