A un metro da te, la recensione

Ormai da qualche anno Hollywood ci sta abituando ad insolite storie strappalacrime: love story che nascono improvvisamente, soprattutto inaspettatamente, pronte a coinvolgere ragazzi “particolari” alle prese con situazioni di vita sicuramente non facili. Storie d’amore che incontrano in modo inequivocabile il cinema del dolore e che non fanno altro che mettere a nudo una certa “sensibilità” del cinema industriale. Dopo i successi commerciali di Colpa delle stelle e Io prima di te, arriva nelle sale italiane con Notorious Pictures  A un metro da te, un delicatissimo dramma sentimentale che coinvolge due diciassettenni affetti entrambi da fibrosi cistica.

Stella ha diciassette anni ed è affetta da fibrosi cistica. La sua vita è riassumibile in continue entrate ed uscite dagli ospedali per effettuare controlli o sconfiggere brutte ricadute. Un’esistenza, quella della ragazza, completamente in funzione della terapia. Ma nonostante tutto Stella riesce a vedere ogni cosa con un inguaribile ottimismo e si tiene costantemente impegnata con la sua attività da vlogger, curando una pagina youtube che utilizza come video-diario. Una sera, durante un tranquillo girovagare per le corsie dell’ospedale, Stella conosce Will, suo coetaneo affetto dalla stessa malattia. Con il suo fare da ribelle disordinato, Will incarna alla perfezione tutto ciò che Stella cerca di evitare da sempre, essendo lei una maniaca del controllo. A causa della malattia che li accomuna, Stella e Will non possono entrare in contatto fisico per nessuna ragione e per assicurarsi che nessun batterio mortale possa trasmettersi l’uno all’altra è necessario che i due stiano sempre a più di un metro di distanza. Tuttavia, tra i due ragazzi nasce presto una singolare amicizia destinata loro malgrado a diventare qualcosa di più profondo e importante. Ma come si può stare insieme se qualunque forma di contatto fisico potrebbe rivelarsi fatale?

È interessante notare come ogni epoca abbia avuto il suo particolare “male” da estirpare e spesso – al cinema – è proprio con le “love story” che si è cercato di scansare molte ansie e paure. Se andiamo a prendere in esame i decenni a noi più vicini possiamo notare con facilità che negli anni ottanta, ad esempio, le storie sentimentali parlavano in modo diretto ad un pubblico di adolescenti e spesso il mezzo cinema serviva a dare speranza a tutti quei ragazzi (liceali o collegiali) vittima di un complesso d’inferiorità. Gli anni novanta, invece, sono stati caratterizzati in maniera più netta da storie d’amore pronte a coinvolgere uomini e donne di bell’aspetto, quasi sempre in carriera, e appartenenti a ceti sociali medio alti. Lo scopo era quello inequivocabili di appianare le divergenze sociali facendo trasparire che tutti, poveri o ricchi, alla fin fine sono accomunati da medesimi problemi quando si parla d’amore.

Nei tempi più recenti, invece, le “love story” hanno preso una piega inaspettata e improvvisamente sembra che il cinema dei sentimenti sia divenuto un’arma efficace per esorcizzare in modo dolce la paura della morte. Da Colpa delle stelle (2014) ad oggi, infatti, non si contano i film che raccontano una pura e semplice storia d’amore ostacolata dall’incombere o dalla presenza di una malattia brutta (spesso terminale) che deve mettere a dura prova i nervi dei protagonisti così come quelli dello spettatore che guarda. In questi casi, inevitabilmente, il vero protagonista del racconto diventa la malattia dal momento che proprio attorno a questa finisce per ruotare ogni cosa.

Così dopo il cancro, la paralisi neuro-muscolare, l’immunodeficienza combinata grave e lo xeroterma pigmentoso è la volta della fibrosi cistica, una fra le più comuni malattie genetiche gravi che porta all’alterata secrezione di muco da parte di molti organi. Ad oggi, purtroppo, non esiste una cura definitiva per combattere la malattia ma ogni intervento medico è finalizzato alla cura diretta del sintomo e alla prevenzione di complicanze.

Da questo presupposto medico nasce A un metro da te, opera prima di Justin Baldoni dopo una corposa attività per il piccolo schermo, che senza troppi giri di parole possiamo considerare la miglior “love story” a tema patologico tra le tante che ci sono pervenute in questi ultimissimi anni. A differenza di tutti i suoi simili, il film di Baldoni riesce ad emergere per via di un coraggio che porta l’opera oltre ogni confine senza porsi mai il problema di apparire esageratamente brutale o crudele.

A un metro da te vince già in partenza, con la temeraria scelta di far svolgere tutta la narrazione solo ed esclusivamente fra i reparti dell’ospedale. Non c’è tempo e non c’è voglia di raccontare il modo esterno alla struttura, così come di aprire la narrazione a personaggi confinati “fuori” da quel reparto, tutto avviene in ospedale, tra la camera di Stella e quella di Will. Una narrazione claustrofobia, dunque, che facilmente potrebbe risultare deprimente agli occhi di qualcuno. In effetti Justin Baldoni non si risparmia nel racconto della malattia e in molte situazioni si spinge tanto nella descrizione della patologia, mostrando i sintomi e quanto possono essere brutali le cure.

Al tempo stesso, tuttavia, A un metro da te riesce anche a farsi portavoce di una delicatezza fuori dal comune pronta ad entrare in contrasto con la drammaticità dell’ospedale, della malattia e della vita rubata a questi diciassettenni carichi ancora di entusiasmo e voglia di fare esperienze.

La riuscita del film deve tanto, se non tutto, alla magnifica interpretazione dei due attori protagonisti: Haley Lu Richardson e Cole Sprouse, due attori che in scena riescono ad avere una sinergia incredibile e capaci di dare entrambi dimensione e personalità a personaggi indubbiamente complessi. Due caratteri ben scritti che vengono valorizzati, ancor di più, dalla performance di questi giovanissimi talenti che dimostrano di avere già pieno controllo del mestiere nonostante la giovane età. A loro, è doveroso annotarlo, si unisce una terza interpretazione degna di nota che è quella di Moises Arias, che nel film interpreta Poe, migliore amico di Stella e anche lui ricoverato nel reparto per la stessa malattia.

Muovendosi su una struttura narrativa già collaudata da altre operazioni analoghe, e questo potrebbe rappresentare un piccolo limite per il film, in A un metro da te il regista capisce bene l’importanza delle suggestioni e per questo regala allo spettatore alcuni momenti di cinema particolarmente intesi grazie alla giusta combinazione di differenti fattori (regia, interpretazioni, montaggio e musiche). In particolar modo è doveroso ricordare il primo appuntamento “ufficiale” tra Stella e Will, così vicini eppure distanti per via di una “terapeutica” stecca da biliardo indispensabile a mantenere la giusta e sicura distanza di un metro.

Sicuramente A un metro da te non è film adatto a tutti. Se non si apprezzano certe storie dove si insiste in modo particolare sul dolore e sulla sofferenza, allora di sicuro questo non è il film adatto a voi.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
La performance di Haley Lu Richardson e di Cole Sprouse.

Un dramma-sentimentale ben calibrato, sicuramente coraggioso nel delineare la malattia ma anche delicato nel racconto dei personaggi.

Alcuni momenti risultano davvero intensi.

Se si ha dimestichezza con il genere, la struttura narrativa può risultare ampiamente prevedibile.

Non vi piacciono le storie sentimentali? Non vi piacciono i film che raccontano il dolore? Bene, state alla larga da questo film.

 

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