BlacKkKlansman, la recensione

Gli Stati Uniti d’America sono una Nazione fondata sull’odio. Ce lo insegna la cronaca di oggi e di ieri e ce lo ribadiscono la letteratura e il cinema.

Spike Lee ha incentrato la sua intera carriera cinematografica sulla documentazione di quell’odio insito nella natura stessa dell’uomo, esaminando in particolare l’odio a sfondo razziale e offrendo allo spettatore uno spaccato della cultura afroamericana, spesso e volentieri in epidermico contrasto con quella dei bianchi. In molte occasioni non c’è neanche un dialogo tra le razze e quando c’è sfocia nello scontro, nell’odio appunto.

Disperso tra produzioni su commissione (Miracolo a Sant’Anna, Old Boy) e piccoli film indipendenti (Il sangue di Cristo, Chi-Raq), Spike Lee si stava avviando sulla strada del declino professionale a cui spesso sono destinati i grandi autori del passato che hanno esaurito gli argomenti, tipologia a cui Lee apparteneva in toto. È stato Jordan Peele di Scappa – Get Out a salvare il Nostro, nel momento in cui l’ha chiamato al timone di BlacKkKlansman, geniale prodotto sui generis che è valso a Lee il Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2018.

Perfettamente in linea con la filmografia e le argomentazioni di Spike Lee, BlacKkKlansman ha il pregio di non adagiarsi comunque sulle tematiche care al regista di Fa la cosa giusta, portando avanti ideali e argomenti in maniera originale e brillante.

In BlacKkKlansman si racconta la storia (vera) di Ron Stallworth, primo poliziotto di colore a Colorado Springs negli anni ’70 dei movimenti di contestazione per i diritti degli afroamericani. Dopo una prima missione da infiltrato in un comizio del leader nero Stokey Carmichael, dove conosce la bella idealista Patricia, Ron prende l’iniziativa di contattare la sede locale del Ku Klux Klan e riesce perfino ad aggiudicarsi un colloquio per entrarne a far parte. Impossibilitato dal colore della pelle, Ron viene “impersonato” in missione da Flip Zimmerman, un collega (ebreo) che si infiltra nel Klan mentre Ron gestisce tutto telefonicamente.

Abbiamo imparato che più le storie raccontate sembrano assurde, più hanno fondamenta nella realtà e infatti la vicenda raccontata in BlacKkKlansman viene direttamente dall’autobiografia del vero Ron Stallworth, artefice dello smascheramento di un attentato dinamitardo da parte del Ku Klux Klan attraverso un’impresa sotto copertura della polizia che ha dell’incredibile.

Il film si fa forte di un soggetto molto accattivante e di una sceneggiatura ottima a firma di David Rabinowitz, Charlie Wachtel e Kevin Willmott, non a caso inserita nella black list delle migliori sceneggiature non ancora prodotte. Lo stesso Spike Lee ha messo mano allo script con alcuni accorgimenti personali, confezionando un film tanto avvincente quanto divertente. Eh già, perché un poliziesco dal potenziale drammatico come BlacKkKlansman è qui trattato con la cifra della commedia, mostrandosi spesso sopra le righe ma sempre efficace nel messaggio da comunicare. Un messaggio che, purtroppo, ci ricorda quanto l’essere umano sia costretto a fare i conti con lo scontro ideologico, uno scontro violento, belligerante, animato da pretesti che possono essere il colore della pelle, il credo religioso, le idee politiche. BlacKkKlansman riesce efficacemente a restituire un clima di tensione costante basata proprio sull’odio reciproco: quello dei Black Panther verso la società repubblicana e bigotta, quello del Ku Klux Klan verso l’integrazione razziale e religiosa. Su ogni tensione si stagliano i personaggi della vicenda, il poliziotto nero Ron (John David Washington, figlio di Denzel) e il poliziotto ebreo Flip (Adam Driver), appartenenti a una minoranza ma lontani da qualsiasi contaminazione ideologica, persone comuni, libere, prive di pregiudizio.

La scrittura brillante dei personaggi e dei dialoghi, a volte spudoratamente citazionisti di certo cinema blaxploitation, avvicina BlacKkKlansman al modello tarantiniano che negli anni è stato riproposto e copiato in lungo e in largo, ma no ci troviamo mai di fronte a una copia sbiadita dei dialoghi pregni di personalità di Jackie Brown, per esempi. Piuttosto Spike Lee è riuscito a far suo quel modo di far cinema che non essenzialmente gli apparteneva, contestualizzando la vicenda in un credibilissimo e idealizzato decennio 70’s che scaturisce principalmente dall’abbigliamento, dalla fotografia desaturata e dalla grana da pellicola che permea costantemente l’immagine. Insomma, gli anni ’70 così come ci sono stati sempre mostrati nel cinema prodotto negli anni ’70 in un gioco pop che strizza l’occhio al cinefilo.

Prodotto da Jason Blum per la sua Blumhouse, specializzata in horror, BlacKkKlansman convince in toto, ribadendo anche in chiusura il focus dell’intera opera con le immagini dell’incidente a Charlottesville, in Virginia, nel 2017, quando un’auto si è schiantata sui contestatori (neri) a una manifestazione dei Suprematisti bianchi. L’odio è in un loop temporale che collega passato e presente, cinema e vita reale, Nascita di una nazione di David W. Griffith e i discorsi di Donald J. Trump.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Storia avvincente e sceneggiatura brillante.
  • Rende bene l’idea degli anni ’70 così come ci è stata tramandata dal cinema degli anni ’70.
  • Ottimi attori.
  • Una certa ridondanza nel messaggio.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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BlacKkKlansman, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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