Hanno clonato Tyrone: ovvero Asimov nell’8 Mile

Il 21 luglio Netflix ha pubblicato il sorprendente Hanno clonato Tyrone, scritto e diretto dal regista e sceneggiatore Juel Taylor (Twenties, Creed 2, Space Jam 2); la pellicola ha subito sbancato su Rotten Tomatoes e pare destinata a diventare uno dei futuri capisaldi di quel nuovo e spumeggiante sottogenere che è la “fantascienza afro”.

In principio fu Jordan Peele e la sua pionieristica trilogia (Scappa – Get Out, Noi, Nope) a strappare i personaggi afrodiscendenti dai ruoli marginali di aiutanti e vittime sacrificali mettendoli al centro di thriller/horror di spessore, ma infine fu il Black Panther del 2018 a far entrare di prepotenza nella cultura cinefila protagonisti non caucasici.

La stessa Netflix nel 2016 aveva fatto un timido ma notevole passo avanti con le due stagioni della seria Marvel Luke Cage ma gli sceneggiatori avevano sbagliato il dosaggio tra le citazioni de Il Principe Cerca moglie e il ritmo di Aspettando Godot. Hanno Clonato Tyrone invece è un vero e proprio ritorno alle origini che affonda le radici sia nella letteratura fantascientifica classica che nella cultura afroamericana.

Fontaine (John Boyega) è uno spacciatore che vive nei bassifondi dell’immaginaria cittadina di Glenn; una sera si reca a battere cassa dal magnaccia Slick Charles (Jamie Foxx) ma dopo che lascia l’abitazione viene freddato in un attentato. Il giorno dopo il nostro protagonista si sveglia nel proprio letto e sembra non avere alcun ricordo di quello che gli è successo la sera precedente; tornato da Slick per riscuotere i debiti viene informato di quello che gli è accaduto dallo stesso pappone e dalla “sex worker” Yo-Yo (Teyonah Parris). Il trio comincia a indagare su un misterioso furgone bianco che fa delle consegne nel loro quartiere perché era proprio da esso che erano partiti i proiettili che avevano ucciso Fontaine. Seguendo questa pista i nostri antieroi notano che nella loro comunità circola inconsapevolmente una sostanza che altera il funzionamento cerebrale e trovando il luogo in cui viene fabbricata fanno un altrettanto agghiacciante scoperta.

Hanno clonato Tyrone è uno di quei film che ad analizzarli bene non presenta elementi innovativi ma tuttavia risulta discretamente piacevole e singolare.

Partendo dal titolo stesso – chi diavolo è Tyrone? – che con la visione risulta più un indizio che uno spoiler, lo spettatore si mette comodo e comincia a focalizzare la propria attenzione più sullo svolgimento dell’azione che sulla trama stessa; uno strano effetto disorientante viene creato dalla fotografia realistica e dalla luce nebbiosa tipiche delle metropoli del nord degli Stati Uniti che sembrano più adatte a un film drammatico in competizione al Sundance Film Festival piuttosto che a una pellicola di fantascienza, ma è proprio questo studiatissimo contrasto che rende ancora più credibile lo stupore dei personaggi; dopotutto, chi potrebbe immaginare un laboratorio segreto, e soprattutto chi ci vorrebbe entrare, dentro una palazzina dello spaccio?

L’idea di degrado che si percepisce da ogni angolatura non è solo il frutto di un’abile direzione artistica, ha a sua volta un fortissimo peso simbolico perché, una volta scoperto il plot twist finale, ci si domanda se certi sviluppi narrativi siano dovuti ai diabolici piani della società capitalistica o siano in un certo senso stati avvantaggiati dalla noncuranza della gente del ghetto verso sé stessa. Così che nella storyline futuristica si innesta l’attualissima critica sociale figlia del Black Lives Matter che piano piano diventa il vero fulcro della narrazione e anche dopo la conclusione della storia lascia allo spettatore interessanti spunti di riflessione.

Riprendendo lo sfortunato esempio di Luke Cage, ma soprattutto di Iron Fist, occorre comunque evidenziare che, nonostante l’innegabile qualità delle scenografie e la profondità delle premesse narrative, Hanno clonato Tyrone sarebbe potuto essere un altro sfortunato esperimento per nerd, se la sceneggiatura non fosse riuscita a costruire dei personaggi che si mangiano la scena. Con un Jamie Foxx (Django Unchained, Ray) così indimenticabile e una Teyonah Parris (Wanda Vision, Twelve) che ci regala la più dolce e carismatica Ghetto Queen che si possa desiderare, la direzione artistica sarebbe potuta essere affidata anche al porchettaro coi cugini importanti che non aveva vinto l’appalto per la mensa aziendale. I dialoghi sboccatissimi si sposano con il succitato realismo dell’ambientazione ma al tempo stesso producono un effetto comico che riesce a colorare la severità della messa in scena e dei messaggi morali; se Yo-Yo e Slick rimandano al salace Axel Foley di Eddie Murphy, l’arcigno protagonista di John Boyega invece ricalca più lo stile interpretativo del Juan di Moonlight.

Juel Taylor fa sfoggio di una certa padronanza di generi e linguaggi cinematografici che così assemblati mandano in brodo di giuggiole gli appassionati di gangster movie, fantascienza e anche dell’action comico. Pregando che ben più altolocate giurie prendano in considerazione qualche candidatura, perlomeno ai Golden Globes, si spera che Hanno clonato Tyrone possa diventare un punto di riferimento per la comunità cinefila.

Ilaria Condemi de Felice

PRO CONTRO
  • Attori fenomenali.
  • Personaggi comici.
  • Ritmo avvincente.
  • Qualità della fotografia.
  • Cliché narrativi.
  • Luce nebbiosa.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Hanno clonato Tyrone: ovvero Asimov nell’8 Mile, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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