Il Gatto con gli Stivali 2 – L’ultimo desiderio, la recensione
C’era una volta, tanto tempo fa, in un posto molto molto lontano…
Un’apertura inequivocabile che, soprattutto da bambini, abbiamo sentito centinaia di volte a suggerirci immediatamente che siamo in territorio “favola”. DreamWorks Animation ne ha fatto quasi una firma rielaborando in chiave dissacrante proprio l’universo favolistico e fiabesco che ha popolato l’immaginario di tanti bambini in tutto il mondo e dalla saga di Shrek si è passati a quella de Il Gatto con gli Stivali nata nel 2011 come spin-off di Shrek 2 che presentava, tra i nuovi protagonisti, proprio lo scaltro gatto reso celebre da Chareles Perrault nel XVII secolo. Il Gatto con gli Stivali 2 – L’ultimo desiderio è un sequel anomalo, non solo perché arriva estremamente in ritardo (11 anni dopo!) ma anche per un decisivo svecchiamento visivo che sta coinvolgendo l’animazione e quella DreamWorks in particolare.
Dopo tante missioni eroiche, più o meno nobili, il celebre Gatto con gli Stivali muore accidentalmente subito dopo aver affrontato un pericoloso gigante di pietra. Ma niente paura, i gatti hanno nove vite e Gatto con gli Stivali non le ha ancora esaurite tutte, però ci sta andando molto vicino! Resuscitato per la nona volta, Gatto ha terminato le sue vite bonus e ora è un mortale come tutti, una condizione che lo fa sprofondare nella depressione spingendolo a rifugiarsi in un ricovero per gatti. Qui, oltre a trovare l’amicizia di Perrito, un chihuahua che si finge un gattino, viene a sapere che esiste una stella magica che ha la facoltà di esprimere un desiderio a chi riesce a trovarla. Nuovamente motivato e intenzionato ad esprimere il desiderio di avere nuovamente nove vite da spendere, Gatto si mette alla ricerca della mappa che può condurre al luogo dove è nascosta la stella. Ma sulle tracce della stessa stella ci sono anche la famiglia di mercenari composta da Riccioli d’oro e i tre orsi, il collezionista di oggetti fatati Big Jack Horner e una vecchia conoscenza di Gatto, Kitty zampe di velluto, con la quale ha degli spiacevoli conti in sospeso…
La prima cosa che salta all’occhio guardando Il Gatto con gli Stivali 2 – L’ultimo desiderio è la volontà da parte del regista Joel Crawford di svecchiare drasticamente la veste grafica del franchise: dal (comunque bellissimo) 3D del primo film si passa a una tecnica mista molto accattivante che unisce 3D con 2D e tocchi di stop motion per una resa a tratti stilizzata ma davvero affascinante che ricorda quanto abbiamo visto di recente in un altro recente prodotto DreamWorks Animation, Troppo cattivi di Pierre Perifel.
Alle sorprendenti e particolarmente dinamiche scene d’azione, Il Gatto con gli Stivali 2 – L’ultimo desiderio unisce una storia semplice e lineare alla portata di tutti che gioca con sentimenti quali l’amicizia, il valore della famiglia (non tradizionale, basti vedere quella di Riccioli d’oro), la paura della morte e la logorante sete di potere, che portano a una morale finale tipica delle favole. Per questo motivo ci si allontana un pochino dal prototipo del 2011 che aveva toni leggermente più adulti seguendo l’onda irriverente di Shrek e strutturando un plot attorno a colpi di scena e twist narrativi.
In questa seconda avventura del Gatto con gli Stivali c’è una grande attenzione attorno all’evoluzione narrativa del protagonista che ha, ancora una volta, l’inconfondibile e caliente voce di Antonio Banderas. Qui troviamo un Gatto che deve affrontare le proprie paure e mettere da parte la sua inconfondibile sicurezza di sé, quella sfacciataggine che l’ha reso l’idolo delle folle e delle gattine. Il “bad guy” sciupafemmine deve fare i conti con il tempo che avanza e l’avvicinarsi della morte, nonché con gli errori compiuti durante la sua lunga vita da gatto per diventare, una volta tanto, responsabile. A far da supporto in maniera perfetta a questa “crescita” a cui è chiamato il Gatto ci sono Kitty, a cui dà la voce per la seconda volta Salma Hayek, e soprattutto la new entry Perrito, un cagnolino dall’animo così buono da infondere nel cuore del Gatto i giusti insegnamenti utili a superare le tante avversità che qui dovrà affrontare. Se da una parte il chihuahua doppiato in originale da Harvey Guillén è un “aiutante” molto classico che ha la funzione di far da coscienza al protagonista, dall’altra è il personaggio rivelazione di questo secondo episodio. Con la sua purezza e la sua incoscienza quasi fuori dal mondo, Perrito non solo è protagonista di alcune gag divertenti ma diventa anche fondamentale per la stessa risoluzione della vicenda.
Il reparto villain, invece, convince a metà. Riccioli d’oro e i tre orsi sono, tutto sommato, la cosa migliore da questo punto di vista perché, oltre ad essere pienamente in linea con la mission del franchise (Shrek e Il Gatto), sono personaggi ben scritti e divertenti, grazie alla caratterizzazione da famiglia malavitosa e con quel tocco dato dal doppiaggio italiano che li fa parlare con flessione ciociara. Big Jack Horner, invece, pescato in un’antica filastrocca per bambini, è davvero un cattivo basic, di quelli tagliati con l’accetta, un bambino cresciuto male e viziato privo di qualsiasi sfaccettatura e movente, a differenza, per esempio, dell’Humpty Dumpty del precedente film. Poi c’è il Lupo sicario, ma su quel personaggio è stato fatto un lavoro particolare e intelligente sul quale, in questa sede, è meglio sorvolare per non incorrere in spoiler.
Nonostante sia passato tutto questo tempo dal primo film e dalla (momentanea) chiusura della saga di Shrek, Il Gatto con gli Stivali 2 – L’ultimo desiderio si presenta come un prodotto particolarmente riuscito e intelligentemente realizzato. Alla scrittura semplice e alla portata di un pubblico molto ampio si unisce una veste grafica originale e molto accattivante che lascia davvero il segno. Per il fan dell’universo Shrek e del cinema d’animazione di qualità sarà davvero una piacevole visione.
Non alzatevi subito dalla poltrona perché c’è una scena bonus mid credits davvero davvero sfiziosa.
Roberto Giacomelli
PRO | CONTRO |
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Per quanto mi riguarda questo è un ottimo film, e tutti e tre i Villain sono ben scritti e resi ottimamente, difatti non concordo assolutamente con le critiche a Jack Horner.
L’essere un Villain standard o basic non significa essere brutti a prescindere, è una mentalità pregiudizievole e denigratoria che sinceramente non ho mai capito, se un Villain basic e standard è scritto bene e svolge il suo compito ottimamente perché dovrebbe essere criticato? Solo perché standard e basic?
Personalmente preferirò sempre un Villain basic e standard ma scritto bene ad un Villain complesso e approfondito ma scritto da cani, e dovrebbe essere il punto di partenza sempre e comunque non solo dei Villain, ma anche dei personaggi in generale: meglio la semplicità scritta bene alla complessità scritta in maniera schifosa, e tutti i pg di questo film sono semplici ma scritti benissimo, tre Villain compresi, per questo funzionano TUTTI i personaggi di questo film, TUTTI.
Personalmente non concordo con il discorso del Villain, che trovo anzi molto pregiudizievole e superficiale.
Da quando essere basic e standard significa brutto a prescindere? E da quando essere complessi e approfonditi significa bello a prescindere?
Questi sono discorsi che, detto proprio papale papale, trovo molto snob quasi, che si ferma alla scorza senza neanche vedere il ruolo che un determinato personaggio ha all’interno della storia e, soprattutto, se HA BISOGNO di un approfondimento, perché sì esistono anche approfondimenti non necessari che rischiano addirittura di distruggere un personaggio.
Big Jack Horner è un Villain basic e standard, verissimo, ma è scritto talmente bene che riesce ottimamente nella sua funzione all’interno della storia, e la stessa cosa vale anche per Riccioli d’Oro e il Lupo (di cui non parlerò causa spoiler), ma anche per tutti gli altri personaggi del film: per quello che è il loro ruolo all’interno del film,
Lo stesso Perrito, che invece avete elogiato, è un personaggio standard, basic e per nulla approfondito (paradossalmente con quel miniflashback Jack Horner è stato più approfondito di Perrito), inutile girarci intorno, però rimane comunque un personaggio perfettamente riuscito per quello che è il suo ruolo nel film, e qui concordo con voi.
Dal canto mio preferitò sempre personaggi classici e standard scritti bene a personaggi complessi e approfonditi ma scritti da cani, e disgusterò sempre i sinonimi “standard e basic = brutto” e “approfondito e complesso = bello”.