La mia famiglia a soqquadro, la recensione

C’è una premessa surreale, originale e venata di paradosso alla base de La mia famiglia a soqquadro.

Il regista Max Nardari la materializza a partire da spunti personalissimi e il lavoro di sua madre Renea Nocchino Nardari Figli violati. Sei storie vere di coppie separate è indiscutibilmente un punto di partenza. L’attenzione è tutta sul bambino e su come l’esperienza del divorzio ne faccia l’oggetto inconsapevole di una battaglia combattuta sul crinale del rancore e dell’aridità emotiva.

Il tono, l’intonazione e la direzione del racconto sono quelli della commedia, della commedia leggera ad essere precisi, e d’altronde sarebbe piuttosto singolare definire altrimenti questo film. Eppure il cuore de La mia famiglia a soqquadro, se ride, ride di un sorriso velato da un’ombra inquieta di amara, amarissima tristezza. Esagerazione? Solo in parte.

Martino (Gabriele Caprio) ha 11 anni quando cede all’assedio del mondo. Primo giorno di scuola, il proverbiale pesce fuor d’acqua. Tutti questi compagni rigorosamente social e le loro famiglie prima spezzate poi ricomposte in tanti piccoli pezzettini, per non parlare del senso di colpa dei genitori, che inondano i figli di viaggi e di regali; la soddisfazione materialistica nasconde un vuoto dei sentimenti che Martino non riesce a cogliere, i suoi occhi si lasciano distrarre dallo sfoggio esteriore e nel suo cuore si incunea un fortissimo bisogno d’omologazione che si spinge fino al parossismo di una decisione senza precedenti: costringere al divorzio mamma Bianca Nappi e papà Marco Cocci non sarà impresa semplice, ma con un po’ di buona volontà… i due sembrano amarsi sul serio, certo le loro vite non sono particolarmente esaltanti (eufemismo), né danno l’idea di essere vissute in appagante pienezza (altro eufemismo), ma la felicità è sincera. A modo loro sono diversi e non se ne vergognano, e tutto questo è intollerabile e deve essere fermato. Nella speranza, ovvio, di un provvidenziale lieto fine che ricomponga i cocci e ricordi a ciascuno l’importanza di essere sé stessi, nel quadro di un rispetto e di un amore reciproci. Completa il discorso una nonna star d’oltreoceano combattiva e fuori dall’ordinario interpretata da Eleonora Giorgi, che è contemporaneamente dentro e fuori il racconto.

Il messaggio è edificante e condivisibile, per quanto Nardari talvolta lo distilli in maniera vagamente moralistica e un po’ pedante. L’idea di base è notevole nella sua semplicità e originalità, inscritta fermamente nel reame del paradosso.

Pare che il film abbia suscitato interesse oltreoceano, e questa è davvero una splendida notizia.

La mia famiglia a soqquadro è un film indipendente che ha faticato molto per trovare una collocazione sul mercato, di fatto si tratta di una commedia natalizia costretta a uscire in primavera e basterebbe questo a far capire molte cose sulle logiche che presiedono al funzionamento del sistema cinema nel nostro paese.

C’è uno squilibrio di registri, il film vuole forse essere troppe cose insieme: commedia dai toni leggeri e dall’umore fiabesco, la caratterizzazione di alcuni personaggi evoca a tratti il mondo dei cartoni animati, ma anche commedia sentimentale, dal sapore più o meno greve. E la sensazione è quella di un treno che scorre contemporaneamente su diversi binari. Le idee sono molte, il trattamento non sempre approfondito. Ma non si può certo tacciare La mia famiglia a soqquadro di essere un film superficiale. Tutt’altro! Nella sua semplicità e incostante leggerezza di tocco, questo piccolo outsider gioca la carta dell’originalità dello spunto e delle premesse, portandoli a dama in maniera forse prevedibile, ma la contraddizione in termini e nei fatti si sposa ad una scelta di campo, quella cioè di realizzare un film per tutta la famiglia, che merita il massimo rispetto.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
A costo di ripetermi per l’ennesima volta, l’originalità dell’idea di base è notevole. La nonna Eleonora Giorgi meritava più spazio. Il rischio sarebbe stato ovviamente quello di sbilanciare il racconto, è chiaro, ma resta la sensazione di un personaggio non valorizzato in pieno.
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