La zona d’interesse, la recensione

Rudolf Höss vive con la famiglia all’interno della sua villetta da sogno. Le sue giornate scorrono lente, in parte tutte uguali, a volte si concede una battuta di pesca con i suoi figli mentre la moglie Hedwing trascorre il suo tempo a curare l’orto e il giardino. Spesso, durante i pomeriggi assolati, Rudolf e la moglie organizzano festicciole con amici per sfruttare la piccola ma bella piscina che hanno in casa. Una routine molto borghese, tranquilla e agiata, in cui c’è solo un piccolissimo dettaglio a modificare ogni cosa: subito fuori la villetta, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz di cui Rudolf è direttore.

Si è parlato tanto di questo ritorno dietro la macchina da presa del cineasta inglese Jonathan Glazer, un ritorno particolarmente atteso dal momento che il regista londinese mancava dalla scena da ben dieci anni, ovvero da quando ci aveva regalato il deprimente e angosciante horror/sci-fi con Scarlett Johansson Under the Skin.

E il suo ritorno sulla scena non poteva essere più rumoroso e chiacchierato di così, visto che La zona d’interesse si pone l’obiettivo di accendere un focus su quella triste pagina di Storia che fa ancora molto male agli esseri umani, quella drammatica Soluzione Finale che portò alla morte più di quindici milioni di persone.

The Zone of Interest

Ovviamente a fare scalpore non è stata la sola volontà di raccontare sul grande schermo gli orrori dell’Olocausto (che forse è una delle pagine di Storia più raccontate dalla settima arte), bensì la volontà di raccontare questo tassello Storico alla maniera di Glazer, ovvero con gelido distacco ed una formalità tale da indurre davvero alla riflessione ma anche ad un disgusto (concettuale) fuori dal comune.

Presentato a Cannes 2023, dove il film si è aggiudicato il Grand Prix Speciale della Giuria, e poi alla Festa del Cinema di Roma, La zona d’interesse ha intrapreso una vertiginosa ascesa verso il successo fino ad entrare nelle ambite cinquine degli Oscar ricevendo ben cinque prestigiose nomination: miglior film, miglior film internazionale (Inghilterra), miglior regista, miglior sceneggiatura non originale e miglior sonoro. Per certi aspetti, dunque, potremmo considerare quello di Jonathan Glazer il film più discusso del 2023 insieme al dittico Oppenheimer e Barbie.

Ma veniamo all’atto pratico e cerchiamo davvero di capire che cos’ha di tanto particolare il film di Glazer da distinguerlo dai tanti, tantissimi film che nel corso degli anni hanno raccontato – talvolta con fare poetico e talvolta con piglio struggente – gli orrori dell’Olocausto e dei campi di concentramento. Perché alla fine, mentre si guarda La zona d’interesse, si ha davvero la sensazione di starsene lì ad assistere a qualcosa di mai visto prima. Dunque, quella tragica vicenda di Auschwitz che, grazie ai testi di scuola, libri, documentari e film, tutti pensavamo di conoscere a menadito, con Glazer riesce ad essere raccontata ancora una volta e in modo decisamente inedito.

The Zone of Interest

Lo sguardo del cineasta londinese è così freddo e distaccato, cinico e disumanizzato, da riuscire a spingere lo spettatore a riflettere su certe barbarie compiute da noi esseri umani, e in un periodo storico relativamente molto vicino a noi, molto di più di quanto siano riusciti a fare grandi Maestri del cinema che hanno approcciato lo stesso tema.

Con La zona d’interesse Jonathan Glazer non fa altro che raccontare lo sterminio degli ebrei ad Auschwitz mettendo in scena un vero e proprio trattato sulla cosiddetta banalità del male. Durante tutto il film, infatti, la macchina da presa non entra mai all’interno del campo di concentramento così come non c’è un solo ebreo in scena. Jonathan Glazer resta sempre al di fuori del muro di cinta, ma all’interno della villetta da sogno di Rudolf Höss, raccontando la vita di quest’ultimo e della sua famiglia come se tutto il film fosse una sorta di Grande Fratello nella casa del primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Dunque, mentre sullo sfondo vediamo lavorare la canna fumaria degli inceneritori di Auschwitz e in sottofondo udiamo velate le urla strazianti di chi in quel campo ci sta morendo, Jonathan Glazer ci mostra la vita banale della famiglia Höss, una vita costellata da problemi comuni che riguardano la stabilità famigliare data dal lavoro, il cercare di ottenere incarichi economicamente più vantaggiosi, preoccuparsi di lasciare o meno quella villetta da sogno, organizzare feste con vicini e amici e cercare di piantare nell’orto quanti più ortaggi possibili. Questi sono i problemi di Rudolf e della sua famiglia, problematiche banalissime che si potrebbero trovare all’interno di qualsiasi altro nucleo famigliare.

The Zone of Interest

Questo è tutto ciò che La zona d’interesse ci mostra nelle sue – comunque lunghe – due ore scarse di durata. Un film che si limita a spiare la quotidianità di una famiglia “di mostri” ma che “mostri” non lo sono affatto. Rudolf vive la sua vita con fare tranquillo, non ha nulla di personale contro quella razza impura che va debellata nei campi, si limita ad eseguire gli ordini e svolgere bene il suo lavoro. Un lavoro che, per lui, è esattamente come tutti gli altri. Serve a mantenere la sua famiglia e a far crescere bene e felici i suoi bambini.

Proprio a tal proposito, e senza fare spoiler, Jonathan Glazer si rifugia in un finale che sa essere emblematico e davvero disturbante. Una lunga sequenza finale che riesce a rendere quanto visto durante il film ancora più normale, ancora più banale, perciò dannatamente inquietante e angosciante.

The Zone of Interest

Ma La zona d’interesse sa come colpire ancora più forte per rendere indelebile quella sensazione di disturbo e fastidio che insegue con tanta ingordigia. Jonathan Glazer, dunque, decide di compiere un lavoro davvero certosino sul suono che, mai come in questo caso, sa farsi davvero protagonista dell’intera vicenda.

Come accennato in precedenza, infatti, tutto l’orrore dell’Olocausto è lasciato fuori campo. Sia sul piano visivo che su quello sonoro. E tutto questo viene esplicitato sin dall’apertura, un’interminabile sequenza a nero in cui lo spettatore non vede nulla ma è costretto ad immergersi in un “mondo sonoro” che ci suggerisce tutto l’orrore uditivo di quel campo: suoni e rumori raggelanti che ci ricordano i lamenti strazianti, le urla, i pianti, le angosce e la sofferenza all’interno di quelle prigioni.

Ma il gioco sonoro non si ferma qui. Jonathan Glazer porta avanti questo racconto uditivo del dramma per tutto il film e dunque, mentre sul video scorrono immagini quotidiane e serene (il tutto illuminato da una fotografia assolata e patinata), in ascolto c’è sempre qualcosa che ci racconta altro. C’è sempre il dramma vivo, nudo e crudo che resta relegato al fuori campo. E quindi una contrapposizione clamorosa e dolorosa di com’è buia e atroce la vita dentro le mura del campo e quanto, al contrario, è solare e tranquilla la vita subito al di fuori di quel muro di cinta.

The Zone of Interest

Dunque, La zona d’interesse è un film che fa male. Parecchio. Jonathan Glazer confeziona un film che si abbandona al puro concetto e dunque non cerca minimamente di coinvolgere e stupire con una narrazione forte o una regia visiva particolarmente ispirata. La zona d’interesse è un film che procede per sottrazione, di continuo, perché ha la consapevolezza che ciò che sta comunicando è talmente forte e disturbante che non ha bisogno di nient’altro.

I minuti scorrono lenti, lentissimi, e la percezione è quella di vedere un film ben più lungo di 106 minuti di durata. La zona d’interesse è un film che può benissimo annoiare, può portare alla distrazione così come potrebbe non catturare l’interesse di chi guarda. Eppure, alla fine, con l’apparire dei titoli di coda, riesce ad ottenere ciò che cerca per tutta la sua durata e con estrema insistenza: repellere chi guarda.

Pur senza mostrare nulla dell’Olocausto, La zona d’interesse sa raccontare quell’orrore meglio di qualsiasi altro film fatto fino ad ora. Perché sceglie di non abbracciare una narrazione classica, non cerca dei veri protagonisti e non esibisce il dramma al fine di innescare un discorso empatico. Fa esattamente tutto il contrario, così che le conclusioni sono lasciate solo allo spettatore.

The Zone of Interest

Imperfetto e spesso autocompiaciuto – esattamente come tutto il cinema di Glazer – La zona d’interesse è un pugno nello stomaco come pochi. Un film che sa essere sgradevole e che riesce davvero a stimolare nello spettatore una sensazione di disgusto e di fastidio. Ci si sente davvero a disagio sullo scorrere dei titoli di coda. Un disagio dettato da ciò che (non) si è visto, da ciò che ci è stato suggerito per tutto il tempo, da ciò che l’essere umano ha compiuto il secolo scorso. Sopraggiunta la fine, perciò, il film riesce a lasciare allo spettatore solo emozioni negative. Brutte sensazioni che rimangono sottopelle per giorni e giorni dopo la visione.

Perciò la domanda è la seguente: un film che, una volta finito, ti lascia solo fastidio e un profondo senso di malumore può essere considerato davvero un bel film? Forse si, forse no. La risposta è più che mai ambigua e figlia di un certo masochismo. Fatto sta, però, che Jonathan Glazer ha centrato in pieno il suo obiettivo!

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Un film sull’Olocausto come non se ne erano mai visti prima.
  • Un trattato sulla banalità del male che sa come sconvolgere.
  • Un lavoro sul fuori campo (visivo e uditivo) assolutamente maestoso.
  • Il film vuole disturbare e angosciare: ci riesce benissimo.
  • Ritmo e regia al totale servizio del concetto alla base. Non è un contro necessario, ma questa scelta radicale porta ad un ritmo così compassato che lascia percepire la durata molto più lunga del reale.
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La zona d'interesse, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

3 Responses to La zona d’interesse, la recensione

  1. Mario ha detto:

    A parte il pugno sullo stomaco che ti trattiene il respiro per poi respirare di nuovo ma con la lancinante consapevolezza della tua incapacità di dover fare qualcosa. Il dubbio sulla lettera e la motivazione di una madre che sparisce e non fa comprendere la motivazione , e la telefonata da parte del marito che prima di tornare a casa , viene dalla moglie preso come quasi un disturbo, ? Lacune a cui desidererei avere risposta Grazie

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    • DarksideCinema ha detto:

      Ciao Mario, per quanto riguarda la madre che se ne va di punto in banco, la motivazione sta nella scena in cui di notte si sveglia illuminata dalla combustione dei forni crematori. Lì c’è un momento di consapevolezza, lei è l’unico personaggio che sembra realizzare l’orrore che la circonda e non riesce ad accettarlo. E se ne va.
      Per quanto riguarda, invece, la moglie che vive l’annunciato ritorno del marito come un disturbo, posso darti giusto un’interpretazione: a lei del marito non interessa nulla, a contare è solo la “bella vita” nella villetta, i beni di cui si appropria come uno sciacallo, le feste in giardino, le chiacchiere con le amiche. Il marito è superfluo, dormono in letti separati, non c’è amore (quella donna probabilmente non è in grado di amare, è il mostro tra i mostri). Quindi è un po’ “che palle questo, oh!”. Spero di averti fornito un motivo di analisi. 😉

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      • fabio ha detto:

        molto curioso di vedere questo film, appena arriva su sky o prime lo recupero, anche se del regista ho visto solo Io sono Sean e mi fece abbastanza pena, non ho visto altro di Glazer, vediamo un pò questo film come sarà.

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