L’angelo dei muri, la recensione

Tra i più talentuosi esponenti del cinema underground italiano contemporaneo, il friulano Lorenzo Bianchini si è ritagliato negli anni un affettuoso posto d’onore nel cuore di molti fedelissimi spettatori di cinema di genere, grazie a un percorso originale e personalissimo all’interno dei meccanismi dell’orrore psicologico. Era del 2001 l’esordio con il claustrofobico lungometraggio Radice quadrata di tre (Lidris Cuadrade di Trè) e del 2004 la consacrazione con l’avatiano Custodes Bestiae, sono poi arrivati i (purtroppo) invisibili Film sporco (2005) e Occhi (2010), fino al primo vero successo internazionale con Oltre il guado – Across the River (2013), che concentrava tutta la poetica bianchiniana in una storia inquietante e struggente giustamente applaudita in ogni dove. Per il suo passo successivo, che ha il suggestivo titolo L’angelo dei muri, Lorenzo Bianchini ha potuto usufruire di una produzione professionale (Tucker Film con il sostegno di Rai Cinema e MyMovies) e una distribuzione cinematografica, un percorso mainstream che non ha minimamente snaturato il suo approccio alla narrazione filmica per una fiaba dark appassionante e commovente.
L’anziano Pietro riceve una notifica di sfratto: dovrà lasciare al più presto il suo fatiscente appartamento. L’uomo, che vive di stenti e non ha nessuno, è disperato e non sa dove andare a vivere così approfitta del cantiere all’interno della palazzina in ristrutturazione per procurarsi i materiali utili a costruirsi un rifugio nello stesso appartamento. Ricavando una minuscola stanza nascosta all’estremità del corridoio, Pietro vede i giorni passare e la polvere divorare ogni oggetto della sua quotidianità passata, ma un giorno vede una bambina e una donna aggirarsi per le stanze: sono i nuovi inquilini e non ci vorrà molto che Pietro inizierà ad affezionarsi alla piccola Sanja, che soffre di una grave malattia degenerativa della vista.

Con una delicatezza sognante che ci rimanda immediatamente al cinema di Guillermo Del Toro (complice anche la bella colonna sonora originale di Vanessa Donelly che richiama molto il main theme de Il labirinto del fauno), L’angelo dei muri scopre le sue carte fin dai primi minuti, con un bellissimo piano sequenza che ci conduce in un tour nella location unica del film, l’appartamento di Pietro. Il film, infatti, ci racconta la solitudine di un uomo anziano fatta di ricordi, di oggetti, di luoghi che rievocano i fantasmi del passato. Sottraendo a un uomo che non ha apparentemente nulla anche quello che gli appartiene di diritto, la memoria, la sua intera esistenza viene fondamentalmente ad annullarsi. Per questo Pietro si ancora al suo mondo, a quelle quattro mura che sembrano ogni minuto che avanza l’allegoria di una vera e propria prigione. Bianchini mostra così di ripercorrere temi a lui cari, la solitudine estrema, il senso di confinamento che assume quasi il significato di limbo terreno, come era già accaduto in Occhi e in Oltre il guado.

La minaccia che proviene dall’esterno (l’ufficiale giudiziario preposto allo sfratto, il nuovo proprietario, l’operaio che mura letteralmente Pietro, i nuovi inquilini) ci vengono descritti, ogni minuto che passa, come un palliativo verso una minaccia ben più grande e profonda che risiede nell’animo stesso del protagonista. Ci sono visioni, dettagli, indizi che ci suggeriscono un non detto, svelato a poco a poco con una perfezione narrativa chirurgica, un progredire nella storia che non lascia davvero nulla al caso.

Ma la bella sceneggiatura che lo stesso Lorenzo Bianchini ha scritto insieme a Michela Bianchini e Fabrizio Bozzetti è solo uno dei tanti elementi impeccabili de L’angelo dei muri, che si avvale anche un incredibile lavoro scenografico curato dallo stesso regista capace di rendere l’appartamento di Pietro un personaggio stesso della storia. Come se si trattasse della leggendaria casa degli Usher dell’opera di Edgar Allan Poe o l’inquietante Hill House raccontata da Shirley Jackson, la casa di Pietro riflette la personalità del suo proprietario, si trasforma con lui, cambia morfologia e ci suggerisce il passare del tempo che il film intenzionalmente lascia vago. La casa sembra dotata di una sua vita propria: le finestre si spalancano per far entrare la neve, l’acqua improvvisamente si infiltra nelle pareti, i fori sui muri consentono al suo inquilino nascosto di avere una panoramica su cosa accade nelle altre stanze e, all’occorrenza, le pareti crollano e mostrano quel cielo stellato che non sembrava appartenere a questa dimensione.

l'angelo dei muri

L’ottima mano di Bianchini dietro la macchina da presa è coadiuvata da una puntualissima fotografia (di Peter Zeitlinger, sodale collaboratore di Werner Herzog) che ci tiene a sottolineare il grigiore che si trova dentro e fuori il protagonista, un’atmosfera costantemente uggiosa, lugubre, polverosa e mortifera.

E poi ci sono gli attori a completare il quadro. Nel ruolo del protagonista c’è un sorprendente Pierre Richard che, all’età di 87 anni, mette da parte le sue abituali smorfie comiche che lo hanno reso un’icona della commedia anni ’70 e ’80 per dar vita a un personaggio sofferto e sofferente che comunica con lo sguardo e con il corpo, privando il suo Pietro della parola. Quasi un parallelismo lega questo protagonista muto alla piccola “intrusa” cieca interpretata da una bravissima Gioia Heinz, praticamente esordiente ma molto espressiva, che è in prigione tanto quanto Pietro e sogna avventure fantastiche grazie al contributo del suo “angelo dei muri”.

Senza mezze misure, L’angelo dei muri è un’opera completa, complessa ed emotivamente appagante come nel cinema italiano non se ne vedevano da molto tempo, tanto nel cinema di blasonati autori quanto nel mainstream di genere. Bianchini ha dato prova che con mezzi modesti, una buona idea e tanto talento si riesce a dar vita a un’opera davvero grande.

L’angelo dei muri è nei cinema italiani dal 9 giugno 2022 dopo un’anteprima al Torino Film Festival 2021 e un’anticipata regionale (Friuli Venezia Giulia) in alcune sale selezionate dal 19 maggio; andate a vederlo perché ne vale davvero la pena.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • L’idea e il modo in cui è stata sviluppata.
  • Il cast, Pierre Richard e Gioia Heinz in primis.
  • L’atmosfera generale.
  • No, non ci sono evidenti difetti da sottolineare.
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