Lazzaro felice, la recensione

Arricchito di un premio al Festival di Cannes per la sceneggiatura, ex aequo con Panahi, arriva al cinema dal 31 maggio 2018 Lazzaro Felice, il nuovo film di Alice Rohrwacher, già premiata sulla croisette nel 2014 con Le Meraviglie. Oggi, come allora, la regista toscana mantiene l’ambientazione bucolica ma dalla meraviglia si sposta al sentimento della bontà, della purezza d’animo in un mondo che usa l’ignoranza come leva di subordinazione.

Si chiama Adriano Tardiolo, ha un volto angelico e interpreta il protagonista che dà nome al film. Lazzaro non ha nemmeno vent’anni e vive all’Inviolata, una cascina dove lavora la terra assieme ai suoi famigliari. Tutti agli ordini restrittivi della Marchesa Alfonsina de Luna (Nicoletta Braschi), signora delle sigarette. Lazzaro stringerà amicizia con il figlio della padrona, Tancredi (Luca Chikovani/Tommaso Ragno) dando il via a una favola e parabola che abbraccia molti valori: il conflitto tra città e campagna, lo sfruttamento del lavoro, la bontà pura come sentimento raro e coraggioso.

Alice Rohrwacher, che gira in pellicola super 16mm, è stata una delle protagoniste tricolore a Cannes assieme a Marcello Fonte, premiato per la miglior interpretazione maschile in Dogman. I due premi italiani hanno qualcosa in comune: il racconto della marginalità, di personaggi con animi opposti, torbido il ritratto di Garrone, puro quello della Rohrwacher, ma comunque profondamente umani. Veri, e con la capacità di toccarti il cuore e lasciarlo colpito dopo la visione.

Con una sceneggiatura sgangherata, atipica e decisamente coraggiosa, Lazzaro Felice viaggia su tanti binari e non ne sceglie mai uno: cos’è un dramma, una favola, una parabola, un racconto di realismo magico, un classico film da festival? Formati, registri, generi e stili diversi: in questo caso, raro, non si tratta di indecisione, ma di una scelta, un afflato soggettivo che si trasforma in poesia.

Non si può star lontani dal magnetismo di Lazzaro: dal suo volto biblico, dalla sua ingenuità e dal modo di mettere in scena una bontà quasi irritante, irreale. A pensarci bene ci provoca: siamo noi probabilmente imbruttiti da una realtà cinica, che spesso privilegia la pancia alla testa e al cuore, a non saper più riconoscere la bontà senza scopo. Lazzaro è San Francesco, è un personaggio allegorico in un film allegorico.

Lazzaro Felice continua a provocare, o almeno a interrogare, quando si mostra come un film fuori dal tempo, per ambientazione e stile registico, e insieme nel tempo stesso, quando racconta dello sfruttamento del lavoro e dei poveri che rimangono poveri se forzati nell’ignoranza. Una situazione ben incarnata dal lavoro poderoso, in sottrazione, di Alba Rohrwacher, sorella di Alice, e attrice nel film insieme anche a Sergi Lopez, Natalino Balasso e Agnese Graziani.

Con un’eco di cinema titanico che soffia un vento (elemento cardine della storia) che arriva da Zavattini, De Sica, Olmi e Citti, Lazzaro Felice, comprensivo tutti i problemi di una sceneggiatura particolare, con una potente cesura a metà film, switch temporali e soluzioni magiche estreme, ci arriva al cuore come un grande film. Pellicola coraggiosa, soggettiva e, lo diciamo, ostica nella fruizione. Richiede fiducia e ripaga pian piano. Tolto un finale un po’ moralista e didascalico, l’esperienza di Lazzaro Felice è un pieno emotivo, umano, mistico. Cinema d’autrice che pompa ossigeno verso la Settima Arte made in Italy ma anche oltre, fuori dai confini: geografici e della narrazione preconfezionata.

Luca Marra

PRO CONTRO
  • Il mix di generi.
  • La poesia.
  • Il coraggio.
  • Alba Rohrwacher.
  • Il finale.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Lazzaro felice, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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