Neruda, la recensione
Al di fuori della comunità cinefila il nome di Pablo Larraín è oggi praticamente sconosciuto. È ragionevole supporre che nel giro di pochi anni la situazione possa mutare in maniera sostanziale e che la solidità complessiva dei suoi lavori guadagni al quarantenne regista cileno il favore del grande pubblico, nei limiti imposti dall’accessibilità del suo modo di vivere e intendere il cinema.
Neruda è la sesta tappa di un percorso autoriale inconfondibile e sin qui salutato da un importante successo di critica e chissà, forse il film della svolta. Segue a stretto giro di posta Il Club, Orso d’Argento a Berlino 2015 e Jackie, accolto con punte di notevole entusiasmo e, si mormora, un po’ bistrattato dal palmarès di Venezia 2016, una prova di vitalità e di prolificità che ci rimanda a un cinema d’altri tempi e, se teniamo ben in mente la qualità media, altissima, di tutte e tre le opere, una splendida e inattesa anomalia nel panorama cinematografico contemporaneo.
La coerenza del discorso di Larraín è granitica, inappuntabile: puntare la macchina da presa sulle vicende di personaggi esemplari che facciano da riflesso alle peculiari e turbolente traiettorie della storia del natio Cile.
Breve sinossi: nel 1948 Pablo Neruda non è semplicemente un poeta. Forse è il Poeta, e non solo in patria. A voler esser precisi, Pablo Neruda nel 1948 è poeta e senatore della Repubblica del Cile e soprattutto, senatore comunista. Il comunista più famoso del mondo, in quel momento, insieme a Stalin e Picasso. La qual cosa non va proprio giù al presidente Videla, un populista da quattro soldi che prende il potere con l’appoggio dello stesso Neruda ma decide poi di smarcarsi mettendo sotto accusa il poderoso totem rosso. Il poeta, interpretato da un magnifico Luis Gnecco, che ingentilisce il suo personaggio con dolcezza, carisma pomposità e umorismo, tenta la via della fuga in lungo e in largo per il paese in compagnia della moglie pittrice Delia (Mercedes Moran), inseguito dal Prefetto di Polizia Oscar Peluchonneau, un magnetico Gael García Bernal. I due giocano deliberatamente al gatto e al topo per buona parte del film.
Ora, per quanto la vicenda sia realmente accaduta e ben documentata, dallo stesso protagonista per di più, è bene precisare che in nessun modo Neruda è, o può essere verosimilmente scambiato, per un biopic di tipo tradizionale. Nelle parole dello stesso regista, un affresco sull’universo nerudiano, un collage di generi, noir (il poeta era realmente un grande amante di storie poliziesche), western e commedia nera, che si fa forte dell’impossibilità di incastonare in maniera esaustiva in un racconto per immagini una personalità davvero larger than life per intessere una serie di originali divagazioni sul tema. Un approccio che da vitalità e forza ad un genere solitamente impaludato nelle forme dell’agiografia ultra-superficiale. Pensiamo anche al sottovalutato Steve Jobs della coppia Jobs / Sorkin, o al Bob Dylan impressionato da Todd Haynes nel suo straordinario I’m Not There. Al di là delle differenze di visione e di struttura ognuno di questi film risplende di un’originalità e di un’anticonvenzionalità davvero salutare.
Neruda è potente, vive di atmosfere languide e sognanti; la macchina da presa sempre in movimento insegue personaggi che si perdono nei meandri di un viaggio che è in fondo il viaggio di ciascuno di noi, l’odissea della vita, la ricerca dell’identità che si costruisce in se stessi e nell’ intrecciare se stessi con gli altri. Il Poeta, Il Poliziotto, la Moglie… ciò che è al principio, ciascuno di questi personaggi, non lo sarà più alla fine del viaggio.
Cinema d’atmosfera: una fotografia sensuale e allucinata, che restituisce il respiro opprimente della prima Guerra Fredda, l’asciuttezza e la brutalità della Storia, combinate alle dilatazioni fantastiche del sogno, dell’incubo. Una voce fuoricampo sfruttata in maniera magistrale per sottolineare, arricchire, punzecchiare e deformare il racconto per immagini. Una ricchezza di motivi formali e di soluzioni narrative che si appoggia ad un ritratto anticonvenzionale e meraviglioso, capace di delineare una personalità fuori dal comune, situata sul crinale fra l’arte e l’impegno politico, oggi forse inconsueta e per questo ancora più affascinante.
Francesco Costantini
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