One Piece: il live action che ci crede tantissimo

Ricchezza, fama, potere: c’è stato un tempo un uomo che ha conquistato tutto questo, Eiichiro Oda, il re degli shonen manga; la gloria della sua opera ha spinto molte case di produzione a chiedere i diritti d’autore, quindi è iniziata la grande epoca dei “cine-manga” fatti bene.

Sebbene in Giappone gli adattamenti live action di manga di tutti i tipi siano ordinari quasi quanto gli adattamenti anime, il resto del mondo ha sempre potuto usufruire solo di pochi di essi; come per tutto il cinema asiatico, infatti, gli ostacoli principali alla diffusione consistono nella differenza nello stile di recitazione e anche nella scrittura dei personaggi, che spesso risultano troppo seriosi e complessi. Le pregevoli eccezioni spesso consistono in film action o thriller (I sette samurai, Dalla Cina con furore, La tigre e il dragone) in cui la suspence riesce a colmare la distanza tra la sensibilità orientale e quella occidentale; per il resto Hollywood si è sempre basata sui remake (The Ring, The Grudge) per “aiutare” gli autori nipponici a far conoscere al mondo la propria opera.

Netflix ha senza dubbio il grandissimo vanto di aver fatto entrare di prepotenza nella cultura collettiva molte serie tv asiatiche e ha, a sua volta, influenzato le produzioni artistiche estere. Ma la regina delle piattaforme, per l’adattamento del manga del geniale Eiichiro Oda, ha trovato la strada spianata, poiché già nel lontano 1996 One Piece era un’opera talmente innovativa e soprattutto inclusiva, che non poteva non trovare “la rotta” per il debutto in carne e ossa.

Forte di una fanbase globale da milioni di utenti, oltre al record di manga più venduto della storia, One Piece è riuscito ad accaparrarsi Matt Owens e Steven Maeda, gli showrunners che tutti vorremmo per i nostri fumetti preferiti.

Nel mondo immaginario creato da Oda, Gol D. Roger fu il più grande “fior di briccone” (cit. Jack Sparrow) mai esistito, tanto da essere soprannominato “il re dei pirati”; prima di morire sul patibolo sfida tutti i presenti a cercare il tesoro che ha accumulato nel corso degli anni, il mitico One Piece, e dà inizio all’epoca d’oro della pirateria. Decenni dopo, il giovane Monkey D.Rufy (Iñaki Godoy) parte da solo su una barchetta al grido di “Diventerò il Re dei piratiiiiii” (se non si legge con minimo sei vocali finali non è filologicamente corretto) per vivere mille avventure e trovare il tesoro di Roger. Il suo primo progetto è quello di mettere su una ciurma e soprattutto di non cadere in acqua dato che da piccolo ha mangiato uno dei Frutti del Diavolo, il frutto Gum Gum, che in pratica lo ha trasformato in un Mister Fantastic -perché ha il corpo di gomma- con l’empatia, in senso buono, di Bud Spencer.

Comincia così la saga di One Piece, a oggi arrivata a ben 106 volumetti e non ancora conclusa; la serie tv Netflix uscita questo 31 agosto è formata da otto episodi di un’ora e si concentra sulla trama dei primi dieci volumi e nello specifico racconta l’incontro di Rufy coi suoi primi compari filibustieri: il cacciatore di taglie Zoro (Mackenyu), che sogna di diventare il più grande spadaccino del mondo, la ladra Nami (Emily Rudd), che desidera disegnare la carta nautica di tutto il mondo,  Usop (Jacob Romero Gibson) il cecchino mitomane che vuole essere un coraggioso guerriero e Sanji (Taz Skylar) un cuoco che tra un calcio rotante e un altro spera di localizzare il Grande Blu, il luogo dove nuotano tutti i più prelibati pesci del mondo.

La sceneggiatura si ispira molto liberamente a quella del manga ma gli screenplayers hanno armoniosamente amalgamato i principali archi narrativi, rendendo la trama scorrevole e anche più fluida, tanto che un profano dell’opera cartacea potrebbe comunque gustarsi la serie tv.

I tagli più consistenti sono stati fatti alle sottotrame comiche e ai frizzanti botta e risposta tra i personaggi, pertanto i protagonisti, per un purista, potrebbero risultare un tantino meno carismatici, ma si può ben sperare nelle stagioni successive.

Gli interpreti hanno fatto un lavoro da maestro presentando una realizzazione visiva dei personaggi piuttosto calzante e cercando di rendere più fedeli possibili anche i minimi atteggiamenti; forse per questa eccessiva attinenza al manga, e specialmente per i tagli ai dialoghi, il Rufy di Godoy talvolta appare troppo enfatico, se non discretamente narcisista, poiché riesce a incasellare i bisogni degli altri nel proprio grande progetto.

Sulla messa in scena si è scatenata un’altra grande questione: meglio una fedeltà cartoonesca al fumetto o una verosimiglianza accademica? I fans dei cine-comics d’autore come 300, Scott Pilgrim vs. The World, V per Vendetta e Watchmen, risponderanno che di certo non pagano il biglietto o la mensilità a una multimiliardaria major dell’intrattenimento per vedere ridimensionato il potenziale fantasy delle loro opere preferite. Perciò ben venga il trucco un po’ pacchiano, i costumi discretamente kitsch, la mimica da recita delle scuole medie e specialmente le scenografie che soffrono di un discreto complesso di inferiorità rispetto a quelle di Disneyland.

One Piece è uno di quei prodotti che non avrà molte candidature agli Emmy, almeno per quest’anno, ma che può far sognare e soprattutto che “rende l’idea” di quello che il caro e vecchio Oda ha costruito per gli ultimi ventisei anni.

Ilaria Condemi de Felice

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One Response to One Piece: il live action che ci crede tantissimo

  1. Salvatore Puggioni ha detto:

    Sempre brava meticolosa e chiara. Anche per i profani dei manga.

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