Quello che non so di lei, la recensione
A cinque anni da Venere in pelliccia, il premio Oscar Roman Polanski torna dietro la macchina da presa per abbracciare nuovamente uno dei generi a lui più cari, il thriller. Stavolta a fornire materiale al regista di origini polacche è il romanzo Da una storia vera (2015) della scrittrice francese Delphine de Vigan, un’opera complessa e metanarrativa che intreccia realtà, finzione, follia e morbosità in un mix perfetto per il regista di Rosemary’s Baby.
Delphine è una scrittrice di successo che si trova in un momento un po’ difficile a causa di una lieve depressione che le causa il cosiddetto “blocco dello scrittore” e mentre il suo compagno è impegnato a girare per il mondo, Delphine fa la conoscenza di Lei, una sua misteriosa fan che inspiegabilmente incontra in diversi luoghi. Tra le due nasce un’amicizia che si fa sempre più forte: Lei addirittura si trasferisce nell’appartamento di Delphine e la sua presenza sembra fornire alla scrittrice elementi adeguati per cominciare a scrivere il suo nuovo romanzo. Ma chi è Lei? Cosa vuole realmente da Delphine?
Polanski gioca con lo spettatore, sparge indizi per tutta la durata del film, indizi di una verità che sembra ovvia fin dai primi minuti, a tal punto che assistiamo a un crescendo finale che culmina volutamente in un clamoroso anti-climax. Ma fa tutto parte del gioco perché quelle cose che sembravano ovvie fin da principio, forse non lo sono.
Quello che non si di lei, che in originale porta lo stesso titolo del romanzo da cui è tratto, fa sue delle influenze da tanto cinema di genere, sembra quasi un lavoro di Brian De Palma per come gioca con i meccanismi del thriller in maniera metanarrativa, mettendo in ballo identità e suggestioni in un chiaro richiamo al cinema hitchcockiano. Eppure, vista la sua natura letteraria, ad un certo punto Quello che non so di lei sembra anche voler strizzare l’occhio a Stephen King, con un ultimo atto che ricorda Misery, senza tralasciare l’autocitazione che stavolta arriva sia dai capolavori paranoici Repulsione e L’inquilino del terzo piano sia dal – relativamente – recente L’uomo nell’ombra.
L’ultimo Polanski è tanta roba, nel senso che è una goduria per lo spettatore appassionato e perché mette in scena un pamphlet di rimandi all’immaginario del brivido tanto da risultare quasi originale. Quello che non so di lei probabilmente non piacerà a tutti, soprattutto a chi dal Polanski più maturo si aspetta un cinema più sperimentale, come lo sono stati gli ultimi suoi due lavori, invece con questo film si torna a un prodotto più commerciale e allo stesso tempo incredibilmente stratificato che costruisce una storia di stalker e paranoia per raccontare il processo creativo di un artista, un po’ come ha fatto Aronofsky con Madre!, solo con meno senso del compiacimento e calzando meno la mano della metafora.
Se Quello che non so di lei risulta un’opera riuscita buona parte del merito va anche alle sue due fantastiche protagoniste. Emmanuelle Seigner, compagna da molti anni del regista e ormai istituzione della sua filmografia, incarna una Delphine vulnerabile e credibilmente ingenua, pronta a fidarsi ciecamente di una sconosciuta e sempre coerente con le scelte che prende, anche se mirate quasi sempre verso un percorso di autodistruzione. Eva Green è invece il contraltare della scrittrice, una donna misteriosa e ambigua, mossa sicuramente da doppi fini che non riescono a trapelare, traditi solo dallo sguardo spiritato che la bellissima attrice riesce a infondere al suo personaggio. Due donne tanto diverse eppure così simili, abilmente tenute fuori dalla caratterizzazione stereotipata a cui facilmente avrebbero potuto abbandonarsi. E invece no, fino all’ultimo!
Sottile, beffardo, intelligente. Quello che non so di lei è un buonissimo ritorno al thriller per un grande, grandissimo regista, che non si accontenta di metter su un mistery, ma racconta – a modo suo – il processo creativo costruendo un’immagine femminile che sa rimanere nello spettatore a lungo dopo la visione del film.
Roberto Giacomelli
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