The Beatles: Eight Days a Week, la recensione

La domanda che sorge spontanea, pensando al documentario di Ron Howard The Beatles: Eight Days a Week è, cosa? Cosa resta da dire sui Beatles che non sia stato già detto e ridetto, sviscerato, dibattuto analizzato o ipotizzato nel corso di questi ultimi ultimi cinquant’anni?

La quantità di opinioni raccolte è torrenziale, strappate che siano ai protagonisti o a testimoni di prima seconda o terza mano.

Voglio dire, nel momento stesso in cui si realizza un documentario (molto buono tra l’altro) sulla segretaria del fan club … La verità è che, a dispetto della profonda distanza temporale che ci separa, che so, dall’uscita di Abbey Road piuttosto che dal pellegrinaggio in India, la vita e l’arte dei Beatles restano sostanzialmente territorio vergine, e questo non per mancanza di buona volontà da parte di chi nel corso degli anni si è arrischiato a misurarsi con l’argomento. L’impatto sul mondo del quartetto di Liverpool trascende la mera dimensione musicale. Non è discorso sull’arte. Parliamo di cultura popolare, e di storia del Novecento. In questo senso, l’enormità dei traguardi raggiunti, e la quasi totale inconsapevolezza (come alcuni dei documenti di questo film chiaramente mostrano) con cui sono stati ottenuti almeno al principio, scoraggia le semplificazioni o le verità preconfezionate.

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In realtà, la storia dei Beatles è un mistero, un giallo, un whodunit. È la storia di un successo senza precedenti, che resta quasi impossibile spiegare, appunto, per l’enormità delle sue proporzioni e per l’imprevedibilità delle sue conseguenze. Come è possibile, per esempio, che un gruppo musicale capace di incastonare nelle note e nei versi delle sue canzoni lo spirito di un mondo in cambiamento, che diventa il portavoce di un’epoca e di una generazione a cui è legato da un’affinità isitintiva, riesca a mantenere un’attualità e una presa sul pubblico anche molto tempo dopo che quello stesso mondo sia stato sbattuto senza troppi complimenti nell’album dei ricordi?

A merito della regia di Ron Howard va denotata la capacità di sollevare interrogativi di questo genere, e di evitare di rispondervi. All’origine di The Beatles: Eight Days a Week sta il progetto della società di produzione One Voice One World che nel 2002 pensa a un film assemblato a partire dalla raccolta dei filmati amatoriali girati dai fan durante i tour dei Beatles, che nel 2012 si aggancia alla volontà della Apple Corps. di realizzare un documentario sugli anni live nella storia del gruppo.

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La regia è affidata a Ron Howard, la cui vicenda di enfant prodige dello schermo e una carriera cinquantennale nel mondo del cinema, con le dovute proporzioni, può aver portato a condividere con la band certe ansie e pressioni che il successo inevitabilmente porta con sé. Parlare dell’attività live dei Beatles significa concentrarsi principalmente su un periodo di tre anni, dal 1963 fino all’addio alle scene consumato a Candlestick Park, San Francisco, 1966. Ovviamente non mancano accenni al periodo pre fama, da Amburgo alle infuocate esibizioni al Cavern di Liverpool. È importante sottolineare, e Howard non si nasconde in questo, come in questa prima fase l’accento vada posto sui Beatles in quanto tali, e non su John, Paul, George e Ringo. Un “mostro a quattro teste”, così lo definisce Paul McCartney, quattro personalità fuse in un solo corpo che si muove respira e agisce con incredibile sincronia. La quantità di materiali d’archivio raccolti spazia da registrazioni di alcuni dei più importanti concerti dell’epoca, compresa la leggendaria performance allo Shea Stadium di New York del 1965, il primo concerto di massa della storia, a testimonianze molto interessanti della vita intima dei Beatles, per lo più inedite. Il fascino dell’indiscrezione.

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Il ritmo del film è indiavolato. L’intento di Howard è quello di trascinare il pubblico sul palco, dietro le quinte, nei camerini insieme al gruppo, per coglierne l’energia e la complicità, sul palco, lontano da esso. Le moderne tecniche di restauro e rimasterizzazione di filmati d’epoca hanno permesso in questo caso di manovrare i canali audio in modo da esaltare la potenza della performance del gruppo e di attenuare, per quanto possibile, il frastuono. Già il frastuono. Quel particolare miscuglio di esaltazione, isteria, idolatria senza precedenti che passa sotto il nome di Beatlemania.

Un’esaltazione per il gruppo che in breve tempo si fa cupa e aggressiva, si trasforma in un circo mediatico vuoto e fine a sé stesso, degradante per i Beatles come uomini e come artisti, fino al giorno in cui la luce si spegne, il sipario cala e lo studio di registrazione prende il sopravvento, inaugurando la fase più avventurosa e radicale della storia del gruppo. Ma non è di questo che vuol parlarci The Beatles: Eight Days a Week.

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In un mondo che cambia, spiega il documentario, la forza dei Beatles fu quella di non scadere nel mero conformismo, né di consegnarsi al clichè dei giovani ribelli in lotta contro il mondo, quanto piuttosto quella di vivere il proprio percorso con una sfrontatezza, una disponibilità e un senso di libertà interiore inedito. Il riflesso di questa liberazione lo si può rintracciare nelle immagini della folla urlante che accompagna i Beatles scatenati nel corso dell’esibizione all’Ed Sullivan Show nel 1964, il giorno della conquista dell’America. O nel coraggio con cui il gruppo impone agli organizzatori del concerto di Jacksonville di abbandonare qualsiasi proposito segregazionista, arrivando anche ad esporsi pubblicamente, dando prova di grandissimo coraggio, a favore dei diritti degli afroamericani.

Ogni volta che la regia di Howard sceglie invece di allontanarsi dal palco, e di abbandonare la Storia (la rivoluzione dei costumi, il Vietnam, Kennedy) per concentrarsi su aspetti più istituzionali della vita del gruppo (la cronologia degli album, la vita in studio) il film perde di brio, e ristagna in maniera più convenzionale.

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Documentari di questo genere servono di solito un doppio pubblico, quello dei fan agguerriti, e il pubblico più convenzionale (detto senza alcuna volontà di offendere). Il bilancio complessivo di questo interessante documentario è positivo nella misura in cui gli riesce di servire entrambi: i primi, perché pur non raccontando nulla di veramente inedito, parla del già detto ma lo fa in maniera interessante e con trasporto, i secondi perché lavora sull’immagine del gruppo senza volerla distruggere al contempo. Pur senza raggiungere le vette emotive del lacerante e bellissimo Amy, di Asif Kapadia, The Beatles: Eight Days a Week è un solido documentario musicale in un periodo di piena vitalità del genere.

Francesco Costantini

PRO CONTRO
Almeno per quanto riguarda la proiezione stampa, il film non era doppiato. Il ricordo di chi scrive è di una proiezione del doc dedicato da Martin Scorsese alla vita e l’arte di George Harrison, e della clamorosa scoperta che Ringo e Paul parlano un ottimo italiano! Il che sarà necessario per esigenze di cassetta, non lo discuto, ma è anche un po’ ridicolo. Questo documentario sembrava i Beatles, Parte Prima. Dov’è il seguito? Il finale, in sostanza, forse un tantino brusco e frettoloso.
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