Tredici: un dilemma artistico

Da un mesetto ormai, è uscita su Netflix la seconda stagione di Tredici. Molti dicono che non fosse necessaria visto che la serie parla della storia di abusi su una ragazza e di come questa finisca con il suo suicidio. Non dovrebbe più esserci nulla da raccontare giusto? Ma andiamo con ordine.

Già dalla sua uscita, l’anno scorso, Tredici aveva causato grande scalpore fra chi la elogiava grandemente e chi la criticava aspramente; dalla critica in brodo di giuggiole per la recitazione e i temi trattati, e le associazioni per supporto mentale americane pronte a millantare un’epidemia di suicidi (come accadde all’epoca del Giovane Werther in una Germania del 1800). Da cosa nasce tutto questo contrasto dunque? In realtà la questione è intricata, per un paio di fattori.

In primo luogo, il più importante di tutti, da cui non si scappa: Tredici è una serie brutta. Pare forse indelicato dirlo così, ma è vero. I dialoghi sono completamente irrealistici, la trama spesso è incoerente, i personaggi non hanno spessore (se non quello che risponde allo stereotipo che rappresentano), la regia è mediocre e la fotografia ancora peggiore. L’unica vera nota di merito, sotto questo aspetto, la si deve concedere agli attori, che per l’età e per le situazioni che devono riuscire a rappresentare, fanno un più che valido lavoro. La costruzione tecnica di Tredici non è né superiore, né inferiore a un qualsiasi altro teen-drama. Non è certo un prodotto da buttare, ma resta esattamente in linea con la mediocrità di tutto il panorama delle serie dedicate ad un target adolescenziale.

Da questo, dunque, siamo costretti a passare al secondo punto: perché tutta questa fama? Perché coloro che hanno creato Tredici si sono posti un alto obiettivo: cercare di aprire un dialogo riguardante il bullismo e il suicidio adolescenziale, entrambe problematiche serie ma spesso passate sotto silenzio, o per lo meno non trattate nel modo giusto. E così decidono di fare questa serie, di abbassare consapevolmente il livello artistico per renderla fruibile ad un pubblico più giovane, per poi sedersi in un angolo ad attendere folle di genitori americani preoccupati. Ogni loro previsione si è avverata: è stata guardata da oltre 6 milioni di persone negli U.S.A., e svariati gruppi di associazioni (di qualsiasi tipo, da quelle scolastiche a quelle religiose, da quelle per la salute mentale ai semplici genitori urlanti “non c’è nessuno che pensa ai bambini?”) gli si sono scagliati contro, chi gridando al capolavoro e ad una nuova presa di coscienza per la società, chi vietandolo in chiesa ai giovani pellegrini. Come succede sempre, i nostri cugini oltremare hanno il dono dell’esagerazione. È improbabile che Tredici abbia portato nella società straordinari miglioramenti o un decadimento della volontà di continuare a vivere. Però un paio di cose le ha fatte, ed è qui che arriviamo al terzo punto.

Fin da subito sono iniziate ad arrivare, ai giovani attori, a Netflix, ai creatori, lettere ed e-mail. Testimonianze di ragazzi e ragazze che quelle situazioni le avevano vissute davvero, che le avevano sperimentate sulla propria pelle e che in qualche modo si sentivano ora più compresi, grazie ad una serie che parlava di ciò avevano dovuto affrontare. Lettere piene di ringraziamenti, e-mail di scuse, messaggi di complimenti. A prescindere da pronostici e terrori quindi qualcosa di buono è successo. Tredici è riuscita a toccare positivamente tantissimi spettatori, anche dal basso del suo target, anzi, forse proprio a causa di questo. Di conseguenza, visto che l’obiettivo principale della serie non è fare un prodotto perfetto, ma scatenare un dialogo, i creatori hanno deciso di accettare la proposta di Netflix per un’altra stagione.

Se seguiamo questo ragionamento, ciò che inizialmente sembrava insensato, acquisisce una sua motivazione. Sicuramente ci sono dietro anche scelte economiche vista la grande risonanza, ma in questo caso probabilmente il discorso è più complesso. La seconda stagione si pone un obiettivo forse ancora più ambizioso della prima: affrontare il problema del sessismo (che nella prima stagione era stato prima introdotto malamente e poi, arrivati al punto focale della questione, superato velocemente) questa volta inquadrandolo sotto svariati aspetti. Questo tema era ovviamente presente anche nella prima stagione, visto che indirettamente ogni episodio di bullismo a cui è sottoposta la vittima, Hanna (Katherine Langford), ha il suo seme in un sessismo stratificato nella vita di ogni giorno. Però nella seconda stagione è come se si arrivasse a chiamare ogni cosa con il suo nome, si inizia a combattere invece che a subire e soffrire (leitmotiv continuo della prima). Molti spettatori e critici hanno trovato svariati difetti nella seconda stagione che probabilmente derivano quasi tutti dalla sua mancanza di una struttura forte. La prima stagione a contrasto, malgrado tutte le sue mancanze, aveva una struttura degli episodi e della storia molto marcata. Ogni singolo episodio era incentrato su una delle cassette postume di Hanna, con la presentazione del personaggio, delle sue colpe e del modo in cui il protagonista, Clay (Dylan Minette), sarebbe dovuto venirne a patti. Nella seconda stagione questo manca, c’è ogni tanto un accenno a una struttura tramite le fantomatiche polaroid o tramite le testimonianze del processo, ma non sempre ritornano ciclicamente. Così risulta slegata, senza un vero scopo. Ma lo scopo questa volta forse lo si coglie nel suo insieme, piuttosto che nei singoli episodi: le accuse che erano state rivolte ai vari “colpevoli” del suicidio di Hanna vengono a loro modo analizzate. Si cerca di iniziare un dibattito già all’interno della storia: in quanta misura devono sentirsi colpevoli coloro che si sono trovati a scontrarsi con un evento tanto traumatico? La risposta che viene fuori alla fine della storia è complessa. C’è chi ha più colpa e chi ne ha meno, non c’è nemmeno una certezza su chi e come possa venire punito, per quanto ingiusto possa sembrare. E questo è uno dei pochi e primi risvolti davvero realistici in Tredici.

La seconda stagione è un tentativo maldestro di aggiustare gli errori della prima: i quali per molti versi persistono, quelli tecnici sopra tutti (e forse peggiorano), ma ciò che nella prima stagione era encomiabile, nella seconda lo diventa ancora di più. E si potrebbe continuare a dire che d’altra parte anche il modo in cui vengono affrontate certe tematiche non sia sempre adeguato, che sia superficiale (troppo almeno, per la complessità degli argomenti trattati), ma la risposta rimane sempre l’obiettivo di tenere un target basso per aumentarne la fruibilità. Così alla fine, dopo aver annunciato una terza stagione, Tredici lascia i suoi spettatori più cresciuti con un dilemma: è accettabile sacrificare il reparto artistico di un prodotto al suo target? Se fosse una serie qualunque la risposta sarebbe probabilmente “no”, ma visti gli obiettivi che si pone Tredici, e per quante persone sembra poter aiutare, forse per una volta, possiamo dire “sì”.

Silvia Biagini

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