Wonder Woman, la recensione
La strada della DC Comics e della Warner Bros. verso la creazione di un universo espanso legato ai più celebri personaggi dei fumetti DC sta procedendo con grande foga ed è stata prevista una pianificazione delle uscite fino al 2020, arco di tempo nel quale vedremo sfilare uno ad uno e tutti insieme i più iconici personaggi creati nella casa editrice californiana.
Un tentativo di rincorrere e bissare il successo dell’ormai consolidato MCU della Disney?
Probabilmente si, ma del resto è la tendenza del momento, visto che la stessa missione è stata intrapresa dalla Legendary Pictures con i monster-movie dell’immaginario Godzilla/King Kong e, recentemente, dalla Universal Pictures con il cosiddetto Dark Universe, che comprende i mostri classici della storica casa di produzione.
Ma quello che non si può fare a meno di notare è che il DC Extendend Universe stia procedendo in maniera scomposta e confusa verso una mission in continuo divenire che non riesce a sedimentare nelle opere prodotte un’identità forte come quella fino ad ora emersa nei film del Marvel Cinematic Universe.
A confermare questo sospetto è Wonder Woman, quarto film del mosaico DC e primo film da solista della più celebre eroina del mondo dei fumetti.
Quella di Wonder Woman, alias Diana Prince, è una vita editoriale che comincia nel lontano 1941, quando William Moulton Marston inventò la prima supereroina dei fumetti che divenne ben presto un’icona pop, nonché simbolo della femminilità e del femminismo. Dopo stravolgimenti (che hanno tentato di ridimensionare la valenza simbolica e anticonformista del personaggio) e inevitabili reboot che hanno donato nuova linfa alla Principessa delle Amazzoni, Wonder Woman è approdata al cinema lo scorso anno, con una folgorante comparsata in Batman V Superman: Dawn of Justice, fino a guadagnarsi un film tutto suo prima di tornare all’interno del corale Justice League (in uscita questo autunno).
Il film, che porta la firma di Patty Jenkins, assente dal cinema dai tempi di Monster (2003), è il classico racconto delle origini dell’eroe e infatti ci mostra una Diana bambina, quando sull’isola Paradiso viene educata da due figure fondamentali come sua madre Ippolita (Connie Nielsen), regina delle Amazzoni, e la sua mentore Antiope (Robin Wright). Cresciuta e divenuta una infallibile guerriera, Diana soccorre fortuitamente Steve Trevor, un soldato dell’aviazione britannica che, in fuga dai tedeschi nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, riesce ad entrare nella cappa energetica che rende l’isola Paradiso invisibile agli umani. Dopo uno scontro con l’esercito tedesco che seguiva Steve, durante il quale muoiono molte amazzoni, Diana individua nel conflitto che sta infuriando lo zampino di Ares, dio rinnegato e acerrimo nemico delle Amazzoni, così decide di abbandonare l’isola Paradiso e accompagnare Steve fino a Londra.
In molti ricordano Batman V Superman proprio l’entrata in scena di Wonder Woman, accompagnata da un travolgente sound di chitarre elettriche: un colpo di fulmine che ha immediatamente promosso Gal Gadot a miglior scelta possibile nella personificazione cinematografica dell’eroina che in tv ha avuto il fisico di Linda Carter (e Adrianne Palicki, ma questo in pochi lo sanno). Ci duole dirlo ma quella quindicina di minuti in cui Wonder Woman compare in Batman V Superman sono di gran lunga migliori delle oltre due ore di durata del film di Patty Jenkins, che purtroppo fallisce su tutta la linea, restituendo un’immagine dell’eroina DC poco aderente alle aspettative fumettistiche.
L’impressione costante che si ha durante la visione è di assistere a un film “vecchio”, sia visivamente che narrativamente e se qualcuno volesse appellarsi a un intento volutamente vintage dell’opera forse sta sopravvalutando l’opera della Jenkins perché vedere nel 2017 un blockbuster che sembra fare il verso ai b-movie degli anni ’90 è un’operazione suicida, produttivamente parlando. Wonder Woman è proprio così, si nota una povertà nelle scenografie e negli invadenti effetti visivi che non può essere giustificata in alcun modo.
Allo stesso tempo, quella stessa povertà si riflette anche sul piano narrativo.
Forse con l’intenzione di raddrizzare il tiro in confronto a Batman V Superman e Suicide Squad, accusati di essere eccessivamente densi di eventi e personaggi fino ad averne compromesso una fluida narrazione, Wonder Woman va in direzione contraria e racconta una storia lineare e semplice, con pochi personaggi e pochissime argomentazioni. Il primo atto nell’isola delle Amazzoni ne esce abbastanza svilito dalle inutili libertà narrative in confronto all’originale fumettistico che servono solo a creare contraddizioni, dopodiché si procede nella direzione del film bellico, con complotti, piani di sabotaggio e sotterfugi da parte di villains tra i peggiori mai visti in un cinecomic. Il generale Ludendorff (interpretato da Danny Huston) è il classico gerarca nazista, megalomane e cattivo senza motivo, un personaggio tagliato con l’accetta e ricalcato (almeno nel nome) su un vero generale dell’esercito di Hitler, inserito nell’universo di Wonder Woman appositamente per il film. A far da spalla a Ludendorff c’è il Dottor Maru, in arte Dottor Poison (a darle le sembianze è Elena Anaya), un pittoresco personaggio apparso sulle pagine del fumetto fin dal 1942 che nel film trova una dimensione più realistica ma manca completamente di un background che possa renderlo accattivante al di là del suo aspetto alla “Fantasma dell’Opera”. Un parco “cattivi” poco ispirato che si completa di quello che potremmo definire “Boss di fine livello”, per scimmiottare il linguaggio video ludico, che desta ben poche sorprese e dona al film quell’alone fanta-trash (miscasting clamoroso!) che ci saremmo risparmiati volentieri.
Altra critica all’epoca rivolta a Batman V Superman, e ancora prima a L’uomo d’acciaio, è stata la mancanza d’ironia, che comunque era una scelta ben precisa e capace di fare la differenza. In Wonder Woman l’ironia c’è ed è utilizzata malissimo, spesso talmente forzata e decontestualizzata da far percepire un inserimento delle battute a posteriori. Pensiamo alla gag che gioca sulle allusioni per descrivere le dimensioni sessuali del personaggio interpretato da Chris Pine… uno dei momenti più imbarazzanti e forzatamente divertenti dell’intero film. Quest’anima comedy è una delle sporcature del film che lascia intuire un pesante rimaneggiamento in fase di script, ufficialmente firmato da Allan Heinberg (strana scelta, visto il suo curriculum che comprende serie come Sex & The City, Grey’s Anatomy, The O.C. e Una mamma per amica) da un soggetto di Zack Snyder. Non aiuta affatto la regia più che anonima di Patty Jenkins, assolutamente inadatta a gestire le scene d’azione (tanto ralenty che sembra fare il verso al ben più pregnante stile di Snyder) e con discutibile gestione dei ritmi.
Personaggi poco memorabili, tra i quali fa eccezione il solo Steve Trevor interpretato con un’ottimale gestione dei registri recitativi da Chris Pine, che riesce più volte a rubare la scena alla stessa Wonder Woman.
Anche la cornice attorno al film, che serve a contestualizzarlo nel DC Extendend Universe, trasmette una sensazione di posticcio, come altri elementi del film, come se fosse stata pensata e girata mesi dopo la chiusura delle riprese.
Insomma, Wonder Woman non funziona e appare come un film realizzato in modo differente da come è stato pensato. Ne esce vincitrice Gal Gadot perché ha la presenza scenica sufficiente a farsi ricordare, così come Chris Pine perché sa caratterizzare il suo personaggio, tutto il resto è un film anacronistico capace di far pesantemente rivalutare il tanto criticato Batman V Superman: Dawn of Justice.
Roberto Giacomelli
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