Ant-Man, la recensione

E anche la Fase 2 è giunta al termine.

Con Ant-Man il Marvel Cinematic Universe ha introdotto un nuovo super-eroe, uno dei meno noti eppure uno dei più “anziani”, vero motore dietro la prima formazione degli Avengers nell’universo di carta della Casa delle Idee. Così come lo scorso anno era accaduto con i Guardiani della Galassia, anche a questo giro la casa di produzione presieduta da Kevin Feige rischia con un personaggio minore e meno popolare cercando di portare avanti un discorso generale e compatto. Un rischio relativo, visto che il solo marchio Marvel ormai è sinonimo di garanzia (di qualità e di incassi), infatti Ant-Man vince e convince, sia la sfida al botteghino (pur non replicando gli incassi stellari dei Guardiani della Galassia) sia quella con i giudizi critici, unanimemente positivi.

Eppure attorno a questo film aleggiava un’aria negativa, data essenzialmente dalle divergenze produttive che hanno portato il primo regista ingaggiato, Edgar Wright, ad allontanarsi dal progetto all’alba delle riprese e un parziale rimaneggiamento della sceneggiatura dello stesso Wright e di Joe Cornish. Divergenze che ci rivelano l’ovvio, cioè che i film di questa macro-saga sono sotto il controllo ferreo dei produttori e ben poco è lasciato agli autori, a maggior ragione se hanno una verve anarchico/autoriale come Wright! E i nomi che sono subentrati non confortavano più di tanto perché venivano dall’ambito comedy americano del RatPack, gente competente nel confezionare film dal sorriso facile, ma troppo lontani dal sinonimo di qualità che potevano essere un Wright o un Cornish. Parliamo di Peyton Redd alla regia e Adam McKay alla sceneggiatura: il primo regista di Ti odio, ti lascio, ti… e Yes Man, il secondo di Fratellastri a 40 anni e I poliziotti di riserva.

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Eppure c’è da rimanere stupiti per l’ottimo lavoro che è stato svolto, per la compattezza e la bontà del risultato portato a casa. E il merito, si sa, è soprattutto di quel ferreo controllo produttivo applicato dalla Marvel di cui sopra, che omologa i prodotti ma li rende tutti immancabilmente validi: se esiste una formula per il blockbuster di qualità, quella formula è stata trovata da Kevin Feige e soci, ormai non ci sono dubbi!

Probabilmente nell’Ant-Man che è sotto gli occhi di tutti è rimasto comunque molto dell’Ant-Man che doveva essere perché il tocco ironico di Wright si nota a più riprese, le improbabili ricostruzioni verbali (con montaggio ipercinetico) del personaggio interpretato da Michael Peña richiamano lo stile della “Trilogia del Cornetto” e lo stesso tono generale dell’opera tende a dirci che non si tratta del “solito” action marveliano, addirittura parodizzato nel geniale scontro finale sul trenino elettrico. Ant-Man, infatti, pur comprendendo azione, effetti speciali e quel sense of wonder che il genere richiede, è molto più vicino alla commedia. Questo non solo perché Paul Rudd – che da volto al protagonista e ha anche messo mano alla sceneggiatura – è ormai un’icona della commedia americana e l’accoppiata Redd/McKay ha frequentato specialmente questo genere, ma è l’aria che si respira in Ant-Man a dircelo. Un’aria meno tronfia e più minimalista, concentrata su pochi elementi che non sovraccaricano lo spettatore di stimoli ma lo rendono ben ancorato a quelle trovate base che rappresentano il fulcro della storia.

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Di cosa parliamo? Di redenzione e responsabilità generate dal potere, due tematiche tipicamente marveliane gestite benissimo in Ant-Man. La redenzione è quella di Scott Lang, ladruncolo incallito che esce di prigione, motivato a rifarsi una vita per il bene della figlioletta di cui ha perso l’affidamento. Il potere è quello generato dalla tuta rimpicciolente di cui Scott entra in possesso e che trova un surrogato nell’armatura da Calabrone nella mani di Darren Cross, malvagio magnate delle tecnologie che vorrebbe venderne il brevetto per un utilizzo in campo bellico.

Ma un’altra cosa che sorprende è l’ottima gestione del materiale narrativo a disposizione.

Ant-Man ha una mitologia antica e corposa, come gran parte dei personaggi nati in casa Marvel agli esordi. Comparso per la prima volta nel 1962 e presto promosso a protagonista di una testata dedicata, Ant-Man ha un ruolo chiave in tutto l’universo Marvel che per forza di cose, a questo punto, non poteva più essere incluso nel film. Nel lungo arco narrativo che porta fino ai giorni nostri, sono ben tre le persone che vestono i panni di Ant-Man, inoltre è stato il primo Ant-Man a creare Ulton (e non Tony Stark!) ed è tra i membri fondatori degli Avengers. Le ripercussioni di tali cambiamenti sono inevitabili, ma nella scrittura di Ant-Man tutto è stato gestito nel migliore dei modi, innanzitutto donandoci un punto di vista che non è quello del canonico “inizio” ma di un passaggio di testimone. Il nostro Ant-Man è infatti Scott Lang, quello che sui fumetti arriva secondo, solo che della storia fa parte anche il primo Ant-Man, Hank Pym, che ha un passato ingombrante e misterioso, molto del quale non viene appositamente rivelato. Il passaggio di consegne, che investe la responsabilità di una tuta che dona superpoteri, comprende anche l’inserimento in un contesto che prevede gli altri personaggi dell’Universo Marvel e se Falcon ha un ruolo vero e proprio nel film, sono numerosi i riferimenti a fatti e personaggi presenti negli altri film del UCM.

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C’è da dire che sono seminati qua e là tanti di quegli elementi che ci conducono al passato e al futuro dell’Ant-Man fumettistico (e quindi cinematografico) da rendere la visione del film anche una sorta di piacevolissima caccia al tesoro per il lettore dei fumetti. E non importa se alcuni elementi sono stati completamente stravolti, come la decontestualizzazione del costume Calabrone, che nel fumetto è un’armatura alternativa di Ant-Man che denota la schizofrenia di Hank Pym mentre nel film è l’armatura del villain Darren Cross, perché nel complesso tutto funziona in maniera impeccabile.

Anche il cast appare azzeccato, Paul Rudd ha la faccia e le capacità giuste per incarnare l’antieroe Scott Lang, malvivente dal cuore d’oro e lontanissimo (anche fisicamente) dall’ideale del supereroe a cui siamo abituati; il suo mentore Hank Pym è un redivivo Michael Douglas che finalmente ha trovato un ruolo che possa rilanciarlo e rendere giustizia al suo glorioso passato; il cattivo di turno, Darren Cross, è interpretato da Corey Stoll, reuccio della serialità televisiva (House of Cards, The Strain) che ha la giusta faccia supponente e allucinata che il ruolo richiede. Poi c’è Evangeline Lilly, conosciuta con il televisivo Lost e reduce da Lo Hobbit, che è Hope van Dyne, figlia di Pym, assistente di Cross e destinata a un futuro davvero sorprendente che sicuramente troverà la giusta accoglienza tra i fan della Marvel.

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Ant-Man tornerà in Captain America: Civil War e sarà elemento essenziale dell’ultimo doppio Avengers, un personaggio così anomalo all’interno dell’Universo Cinematografico Marvel che non gli si può non voler bene. E il film è divertente, avvincente, ricco e allo stesso tempo essenziale.

Insomma un altro graditissimo centro da parte della Casa delle Idee trasferita al cinema!

P.S. Non perdete le due scene bonus dopo i titoli di coda: una a metà che anticipa il futuro di Ant-Man, una alla conclusione che è riferita a uno dei prossimi e più attesi film Marvel.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Trova un tono differente – più vicino alla commedia – in confronto agli altri film Marvel.
  • È stato fatto un ottimo lavoro sul materiale fumettistico di base pur avanzando molte libertà.
  • Cast funzionale e ben assortito.
  • Ben inserito nell’Universo Cinematografico Marvel.
  • Se siete stanchi del cinema Marvel, sappiate che anche Ant-Man ne rispecchia tutte le caratteristiche.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +2 (da 2 voti)
Ant-Man, la recensione, 8.0 out of 10 based on 1 rating

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