Black Christmas, la recensione

Un gruppo di adolescenti baldanzosi e dal bel aspetto riuniti all’interno di un luogo chiuso o ben delimitato, un killer mascherato spietato, armato di coltello, e un copione già scritto… ossia tanti omicidi, sangue e violenza in abbondanza. Un canovaccio ben consolidato, racchiuso all’interno del sottogenere slasher, che nell’immaginario collettivo è legato agli anni Settanta e Ottanta – non a caso due decenni d’oro per l’horror – ed in particolare a capolavori come Halloween e Venerdì 13 i cui villain sono divenuti autentiche icone cinematografiche per generazioni di appassionati del genere grazie al loro aspetto e alle movenze cadenzate, ma inesorabili, che davano il là ad autentiche danze di morte.

Non tutti sanno, però, che questi due capisaldi del filone hanno preso spunto da altre due opere fondamentali per la codificazione dello slasher: il nostro Reazione a catena di Mario Bava e Black Christmas di Bob Clark i cui stilemi ed estetica del delitto hanno influenzato i registi che si sono cimentati nel raccontare storie dallo sviluppo scontato e ripetitivo, ma dal fascino sempre irresistibile per gli spettatori di ogni epoca e protagoniste di lunghe saghe di successo. Serialità che facilmente sfocia in un proliferare di remake e reboot, come nel caso proprio di Black Christmas che, dopo il rifacimento ad opera di Glen Morgan nel 2006, rivive per la terza volta grazie alla regista/attrice Sophia Takal la quale, dopo alcuni titoli non fortunatissimi, si cimenta con un classico dell’horror.

Black Christmas

L’esito, però, non è quello sperato in quanto il suo Black Christmas è un film modesto, sia nella resa visiva che dal punto di vista della scrittura, e che si rivela persino pretenzioso nel suo voler infarcire la storia con elementi socio-politici attuali, come il tema della violenza sulle donne, trattati però con toni superficiali e semplicistici.

Riley è una ragazza sconvolta da un terribile abuso sessuale subito da parte di Brian, giovane e meschino presidente della confraternita universitaria fondata dal controverso Calvin Hawtorne, e al quale nessuno ha creduto, nonostante la denuncia della giovane. Ad un anno di distanza si presenta alla protagonista un’occasione irripetibile per urlare a tutti quello che è successo: uno spettacolo natalizio nel quale Riley canta alcune strofe che parlano dell’abuso subito. Da quel momento in poi, però, inizia una spirale di minacce, terrore e morte per lei e per le sue amiche…

Black Christmas

L’horror si è da sempre scisso in due correnti ben distinte, ma allo stesso tempo legate fra loro: da un lato c’è la tendenza a raccontare storie estranee alla realtà per tematiche e ambientazioni; dall’altro, invece, molti autori hanno ostentato la velleità di fare un cinema di denuncia utilizzando gli stilemi del genere, senza mai però rinnegarli, al fine di creare un organismo unico tra questi e la realtà socio-politica del momento (come fatto da grandi autori come John Carpenter e Wes Craven, giusto per fare due importanti esempi).

Un terreno tanto ambizioso quanto impervio nel quale si impantana Sophie Takal che nella sua versione di Black Christmas si discosta sempre più dalle dinamiche slasher, per affrontare goffamente quel tema della violenza sulle donne che nella odierna Hollywood fa rima con “Me too”. Il risultato, tuttavia, è decisamente modesto in quanto la regista statunitense commette il grave errore, comune a tanti autori in questi ultimi anni, di non bilanciare i due ingredienti, offrendo così un cocktail indigesto che rende scontenti sia i puristi del cinema di genere sia coloro che ricercano horror non banali e capaci di esprimere concetti il più possibile profondi. I primi restano delusi da una quasi totale mancanza di violenza, caratteristica principale per uno slasher, e una gestione della tensione pressoché assente che concorrono a rendere il plot noioso, monocorde e quasi irriconoscibile agli occhi di chi ha visto le due versioni precedenti del film.

Black Christmas

I secondi, dal canto loro, non possono di certo gioire per una sceneggiatura, scritta dalla stessa Takal in coppia con April Wolfe, che riduce una tematica così importante ad un corollario di slogan da striscione, incitamenti alla rivincita reazionaria, dialoghi banali e situazioni telefonate, messe in scena da personaggi femminili piatti, mal caratterizzati e dalle psicologie poco approfondite, oltre che mal interpretate. La logica conseguenza di tutto ciò è un punto di vista da parte della regista che, seppur netto e chiaro fin dall’inizio, non viene mai espresso in maniera decisa e finisce per annegare all’interno di un mare di parole e immagini mal congegnate fra loro.

Black Christmas, in conclusione, non è né carne né pesce e rientra in quella ormai ingente sfilza di titoli horror da dimenticare immediatamente dopo la visione.

Black Christmas

Il film di Sophia Takal sarebbe dovuto uscire al cinema nel periodo natalizio distribuito da Universal Pictures ma l’eclatante insuccesso al botteghino statunitense ha spinto la distribuzione ad annullare l’uscita in Italia in sala. Attualmente è disponibile in vod nel catalogo di Chili Cinema.

Vincenzo de Divitiis

PRO CONTRO
  • Apprezzabile il tentativo di trattare un tema importante e attuale come la denuncia della violenza sulle donne.
  • La suddetta tematica viene, però, trattata con superficialità e attraverso una sfilza di slogan banali e personaggi femminili poco approfonditi.
  • Tensione quasi assente.
  • La storia risulta poco avvincente e non appassiona per nulla.
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Valutazione: 4.0/10 (su un totale di 1 voto)
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