Humandroid, la recensione

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Neill Blomkamp, classe 1979, è tra i più interessanti cineasti dell’attuale panorama fantastico internazionale. Messo sotto i riflettori grazie a quel piccolo capolavoro indie che risponde al titolo di District 9, Blomkamp è stato subito intercettato da Hollywood rimanendo su alti livelli qualitativi con Elysium. Alla sua terza prova, il regista sudafricano conferma il suo enorme talento e con Humandroid inserisce nel mosaico del moderno cinema fantascientifico un altro fondamentale tassello di grande qualità.

Che Blomkamp fosse un appassionato di cinema di fantascienza anni ’80 lo si era ampiamente capito dal suo esordio e dalla continua voglia di fondere l’immaginario fantastico con reali questioni di carattere sociale, cosa che gli era riuscita particolarmente bene sia con District 9 che con Elysium, ricollegandosi alla reale situazione borderline in cui versa il Sud Africa da molti decenni. Con Humandroid – che in originale si intitola Chappie, come il nome suo protagonista – le questioni sociali e le palesi metafore politiche vengono messe da parte per dare maggiore spazio a un immaginario più vicino all’entertainment puro, ovviamente di marcatissimo stampo eighties.

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In un prossimo futuro, Johannesburg vede il proliferare di un corpo di polizia formato da androidi, gli Scout, ultimo ritrovato tecnologico nato per far fronte a una situazione di crescente criminalità a cui le classiche autorità non riuscivano più a far fronte. La società leader nella costruzione di Scout è la Tetravaal, per la quale lavora l’ingegnere Dion, che è riuscito a sviluppare un software che dona una “coscienza” propria ai robot e vorrebbe avviare, in via sperimentale, un programma che testi l’efficacia di questi androidi. Ma il ragazzo trova l’ostilità del direttore della Tetravaal, Michelle Bradley, e di Vincent Moore, un ex-militare che sta sviluppando i Moose, giganteschi robot da guerra comandati dall’uomo. Malgrado questi impedimenti, Dion utilizza il suo software in uno Scout danneggiato, accorgendosi che funziona perfettamente. Quando l’ingegnere viene rapito da un terzetto di criminali con l’intento di dar loro un’arma, i tre si ritrovano tra le mani il robot con la coscienza, lo battezzano Chappie e lo educano ad essere un fuorilegge.

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Costruendo il suo film come una favola morale, Blomkamp lascia del tutto marginale qualsiasi implicazione socio-politica (anche se il finale tende in quella direzione per eventuali futuri sviluppi) per incentrare tutto sul rapporto padre/figlio, creatore/creatura. Chappie è un moderno Pinocchio piuttosto che un novello mostro di Frankenstein, non si ribella al suo creatore ma ne segue pedissequamente gli insegnamenti. Chappie ha bisogno di un imprint e di continui stimoli per crescere, come se si trattasse di un cucciolo (o un bambino) e li riceve tanto dal suo “padre”, interpretato dal protagonista di The Millionaire Dev Patel, che dal terzetto di criminali-punk che lo esigono e lo adottano. Insegnamenti che possono essere dolci e utili, come quelli di sua “madre” Yo-Landa, o del tutto fuorvianti e canalizzanti verso una formazione criminale, come quelli impartirti dal violento “padre adottivo” Ninja. Humandroid ci racconta così la favola di questo robot che si crede un bambino e forse lo è, visto il marchingegno da cui nasce e che pone un nuovo passo avanti nel campo dell’intelligenza artificiale. A tal riguardo, però, Blomkamp non si preoccupa nemmeno un secondo della verosimiglianza della sua storia e gioca con il concetto di “coscienza” con tale irresponsabile leggerezza che è richiesto allo spettatore un’abbondante capacità nella sospensione dell’incredulità.

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Come se ce ne fosse ancora bisogno, Blomkamp dimostra di provare una grande ammirazione per Paul Verhoeven e se in District 9 ne coglieva lo spirito per la diegeticità dei mass media, qui va alla radice e lo cita apertamente portando in scena gli ED-209 di RoboCop, che forniscono il modello per i Moose. Ma è l’intero scheletro a ricordare il celebre film di Verhoeven, sia per l’impiego di robot nella polizia sia per l’idea di rendere protagonista un robot umano. Ma, come si diceva, in Humandroid è tutto un immaginario cinematografico anni ’80 a regnare, con un’estetica che ricorda molti adorabili B-Movie di quel decennio, dal look dei criminali-punk fino a riferimenti anche abbastanza evidenti a specifici film: oltre al già citato RoboCop, c’è molto di Corto Circuito.

Insieme a Dev Patel, altri volti noti del film sono Hugh Jackman, in un inedito ruolo da cattivo, e Sigourney Weaver, nella minuscola parte del direttore della Tetravaal. Non può mancare Sharlto Copley, vero e proprio attore feticcio di Blomkamp, che stavolta però non ci mette la faccia e da voce e movenze a Chappie.

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Con i dovuti distinguo dall’inarrivabile District 9, il regista sudafricano porta avanti una personalissima visione del cinema di fantascienza che ne sta facendo un vero campione di razza per il genere. Non è da tutti pescare qua e là nell’immaginario di una generazione, rielaborare con uno stile personalissimo e rimanere molto originali. Blomkamp ci sta riuscendo, Humandroid è un altro centro in attesa della prova del nove con il quinto film della saga di Alien, pensato insieme a Sigourney Weaver proprio durante la lavorazione di Chappie e che la Fox sembra aver affidato ciecamente al regista sudafricano. Aspettiamo e vediamo se anche le creature xenomorfe riusciranno ad essere blomkamizzate!

 Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Rielaborazione personale dell’immaginario fantascientifico da b-movie anni ’80.
  • Bel contesto da fiaba morale.
  • Chappie è un personaggio che lascia il segno.
  • Si tende a dare per scontato il concetto scientifico di coscienza.
  • Sigourney Weaver è sprecata per quel ruolo.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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