Il Primo Re, la recensione

Se scegliete di entrare in sala a vedere Il Primo Re, nuova opera del giovane regista e produttore romano Matteo Rovere, sappiate che state per assistere a un unicum per il cinema italiano, un qualche cosa che probabilmente non si era mai visto prima e difficilmente si vedrà in futuro.

Rovere, che arriva dal successo di pubblico e critica dell’ottimo Veloce come il vento, decide di raccontare al grande pubblico la storia di Romolo e Remo e della nascita di Roma. Ma lo fa con un piglio insolito, molto autoriale, che davvero nulla ha a che fare con quello a cui noi spettatori di cinema italiano siamo abituati. Questo è un bene, ovviamente, un passo importantissimo nella storia produttiva del nostro Paese, oltre che coraggioso perché le scelte intraprese da Rovere non è detto che siano così popolari, nonostante la storia scelta da raccontare sia di sicuro appeal per il pubblico.

Facciamo la conoscenza di Romolo e Remo già adulti, pastori alle prese con la loro quotidianità. Sorpresi e travolti da una violentissima esondazione del Tevere, i due fratelli non solo perdono il gregge ma, salvi per miracolo, vengono fatti prigionieri dai soldati di Alba. Costretti a duelli all’ultimo sangue per appagare i sacrifici al Dio che la vestale custodisce in un recipiente dalla fiamma sempre viva, i prigionieri di Alba riescono a ribellarsi proprio grazie a un piano di Romolo e Remo, fanno fuori i loro carcerieri e rapiscono la vestale, conducendo con essi il fuoco sacro. Quello che segue è un errare tra i boschi del Lazio, con Romolo gravemente ferito e Remo leader degli insorti, pronto a sfidare gli dei pur di condurre in salvo il fratello.

Interamente recitato in proto-latino, una forma arcaica di latino ricostruita grazie al supporto dei semiologi dell’università Sapienza di Roma, Il Primo Re abbraccia decisamente fin da subito uno stile realistico, crudo e privo di qualsiasi concessione ai compromessi storico-epici a cui ci ha abituato il cinema hollywoodiano.

La scena si apre con un’esondazione del Tevere, violentissima e deflagrante, che trascina i corpi dei fratelli Romolo e Remo contro sassi e tronchi di legno che lacerano e acciaccano il loro corpo. Rovere si è chiaramente ispirato a una scena simile vista in The Impossible di Juan Antonio Bayona, ma la contestualizza alla sua storia facendo trascinare i suoi protagonisti dal fiume così come dagli eventi che da quel momento in poi saranno dettati dal destino. Un destino crudele e ineluttabile guidato da un’aria di misticismo onnipresente che non è mai stato così paradossalmente laico. L’aspetto religioso, infatti, è un elemento fondamentale de Il Primo Re documentando quanto le genti di allora fossero condizionate in ogni loro scelta dal volere divino attraverso riti propiziatori, sacrifici e la venerazione di elementi naturali e oggetti. Ed è proprio contravvenendo a questi principi che prende l’innesco la vicenda di Remo, tanto sprovveduto quanto coraggioso nello sfidare il volere divino e, addirittura, profanare il Dio in terra autoproclamandosi eretico.

Un discorso molto articolato che va incontro alla scelta di rimanere il più possibili attinenti al valore storico dei fatti raccontanti, ricostruendo un ambiente antropologicamente credibili grazie a uno studio minuzioso del vestiario, dei monili, delle armi e dei comportamenti delle persone che abitavano il Lazio nell’VIII secolo a.C., ricostruzione a cui hanno contribuito studiosi dell’università di Tor Vergata.

Ma Il Primo Re non è solo un film che fa del realismo il suo vessillo, è anche un esempio di grande cinema d’azione come in Italia non se ne era mai fatto prima. Sono numerosi gli scontri fisici durante le due ore di durata, scontri violentissimi, fangosi, ottimamente coreografati e messi in scena da stunt veri, senza il ricorso all’effetto speciale. Una messa in scena che comunica il duro training che c’è stato dietro questo film, sicuramente complicatissimo da realizzare, a cui hanno dato anima e corpo un manipolo di attori praticamente perfetti per la parte. Se Alessandro Borghi, che campeggia sul poster del film, è sicuramente la figura chiave dell’intera operazione, interpretando un Remo quasi shakespeariano, e Alessio Lapice è un Romolo molto sofferto e forse un po’ sacrificato da esigenze di sceneggiatura, è tutto il cast di contorno che sorprende per incredibile lavoro di casting, con volti per lo più sconosciuti (riconosciamo Massimiliano Rossi in un piccolo ruolo) ma perfettamente coerenti con l’idea di realismo portata avanti da Rovere.

Guardando Il Primo Re immancabilmente torna in mente Apocalypto di Mel Gibson, tanto per l’ambiente naturale che fa da sfondo a tutto il film quanto per l’utilizzo esclusivo di una lingua arcaica (con sottotitoli), ma è indubbio che la vera fonte d’ispirazione per Matteo Rovere è stato il nuovo cinema action-storico nord europeo, quello di Nicolas Winding Refn (Valhalla Rising) e Roar Uthaug (Escape – Flukt), solo per fare due nomi, dove uno sguardo prettamente autoriale si sposa con un linguaggio moderno, fisico, polveroso e violento.

Il Primo Re non è un film per tutti, probabilmente risulterà ostico al grande pubblico a cui forse 01 Distribution punta, ma è un film dal sapore internazionale e dall’impatto potentissimo. Lontano dall’essere perfetto, ma una mosca bianca nel panorama italiano capace di farci respirare.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Uno sguardo autoriale a una delle storie più celebri (e stranamente poco raccontate al cinema) della Storia del nostro Paese.
  • Attori incredibilmente in parte.
  • Ogni cosa è intrisa di realismo, fortunatamente.
  • Scene d’azione come mai se ne sono viste in Italia.
  • Per tanto pubblico potrà risultare ostico, sia per la scelta coraggiosa di far parlare tutti in latino arcaico, sia per un approccio autoriale fatto di ritmi lenti e sterzate d’azione estrema.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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Valutazione: +2 (da 2 voti)
Il Primo Re, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

One Response to Il Primo Re, la recensione

  1. Renato Santoro ha detto:

    Manca il guizzo artistico della reinvenzione. Una volta smascherato il vezzo stilistico, resta poco

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